
TRAMA
Due amici americani e un islandese sono in giro per l’Europa in cerca di sesso, droga e divertimento. Per un po’ gli va (rectius: “va loro”) di lusso, poi finiscono nel posto sbagliato al momento sbagliato… _x000D_
RECENSIONI
Con Cabin Fever, tre anni fa, Eli Roth aveva conseguito almeno due importanti risultati: a) portare alle estreme conseguenze lanalisi de-strutturante del testo horror in voga nel cinema degli anni 90, tornando per lappunto al testo e b) illustrare latto fondante del cinema postmoderno americano, ossia, cristallizzare e cinematografare il processo che da David Lynch porta, attraverso smussature e semplificazioni, a Quentin Tarantino. Non è un caso, allora, che stavolta sia proprio Tarantino il nome/nume tutelare di Hostel , che forse risulta, però, meno tarantiniano del suo predecessore; a parte un brevissimo spezzone di Pulp Fiction che passa in tv, gli unici riferimenti puntuali sono riscontrabili nella figura del torturatore tedesco (e, più in generale, nellatmosfera di tutta la sequenza che lo vede protagonista) e nella struttura bipartita del film che rimanda, in qualche modo, a quel From Dusk Till Dawn (diretto da Rodriguez ma scritto da Tarantino) in cui però la svolta giungeva davvero improvvisa quanto inattesa. Hostel si rivela invece ben più convenzionale da questo punto di vista, perché se è vero che per molti aspetti i primi 40 di pellicola sembrano un altro film rispetto ai 50 che seguono, è anche vero che a ben vedere il seme della discesa agli inferi viene gettato abbastanza presto e che molti passaggi narrativi sono prodromi piuttosto prevedibili e codificati (le troppo allettanti promesse del ragazzo russo, lincontro dello strano personaggio sul treno, il museo delle torture). E bene infatti chiarire che la vulgata - hostel è una teen comedy che diventa improvvisamente un horror ultragore - è sì uneccessiva semplificazione, largamente inesatta, ma rende almeno unidea del vuoto pneumatico protagonista della metà nonviolenta del film, inesauribile risorsa di sciocchezze divertenti solo se lette al secondo/terzo grado. Archiviata questa ambigua sezione preparatoria, comunque funzionale alleconomia del film nel suo stridere con il prosieguo, non si fa in tempo a domandarsi (e a rispondersi) in che misura e con quanta consapevolezza Eli Roth ci fa , che arriva il piatto forte del film, quello che tutti aspettano. A tale proposito, tornando alla vulgata, conviene fissare un altro punto importante: Hostel non diventa/è quel film insostenibile che non lascia nulla allimmaginazione dello spettatore. Ha sicuramente un livello di crudeltà e di violenza grafica inusuale per un prodotto comunque mainstream, ma rimane lontano diversi annetti luce dallo splatter oltranzista di un Ichi The Killer (a Takashi Miike, dichiarata fonte di ispirazione, Roth riserva pure un breve ma significativo cameo da cliente-torturatore) o, più che mai, dallhardgore di non ritorno dei due episodi della serie Guinea Pig , dedicati rispettivamente alla tortura gratuita, diversificata e prolungata fino alla morte ( Devils Experiment ) e alla lenta e metodica distruzione del corpo di una cavia umana anestetizzata ma cosciente ( Flower of Flesh and Blood ). Hostel mostra delle atrocità, certo, ma non indugia con la macchina da presa, non disdegna il fuori campo e sicuramente non si esaurisce nel sadismo fine a se stesso né nello humour nero che accompagna i momenti splatter più intensi. Almeno (altri) tre, infatti, sono gli aspetti interessanti della seconda parte del film; il primo aspetto è la padronanza tecnica del regista, che passa da una regia anonima tendente al piatto televisivo della prima parte, a una sapiente gestione dei tempi narrativi e degli spazi, idonea a creare e mantenere fino alla fine ansia, tensione e suspense; il secondo aspetto riguarda la sostanziale fedeltà di Roth, già mostrata in Cabin Fever , a certo horror anni 70 (e primi 80), che vede una sorta di archetipo strutturale nel tuffo nellincubo assurdo senza via duscita di The Texas Chainsaw Massacre , largamente riproposto qui; il terzo aspetto riguarda infine una non nuova ma non per questo banale riflessione sulla violenza cinematografica che coinvolge il posizionamento, anche etico, dello spettatore nel racconto filmico. Una prima immedesimazione con le vittime (inaugurata dalla soggettiva di Josh, che ci precipita con lui nella stanza degli orrori) viene infatti progressivamente ma inesorabilmente ribaltata allorché una vittima (Paxton) diventa carnefice e mutila per poi uccidere brutalmente il carnefice divenuto vittima. Non solo dunque, come sempre in questi casi estremi, lo spettatore è portato a chiedersi perché guardo e mi piace?, ma è nondimeno trascinato in un meccanismo vendicativo che rovescia la prospettiva con cui guardare la tortura fatale: prima attraente ma passivamente e incolpevolmente subita, dunque moralmente inaccettabile, poi sempre attraente ma inflitta per contrappasso e (dunque?) non solo moralmente accettabile ma quasi agognata, catartica e liberatoria. Simpatico, nella sua idiozia retrò, il parental advisory stampato sulle locandine: AVVERTENZE: Contenuti violenti. Scene truculente. Inquadrature brutali. La vera sfida è guardarlo fino in fondo.

Autore della insipida rimasticatura "Cabin Fever" (ma in molti hanno abboccato), il giovane Eli Roth torna con prepotenza al "genere" che gli ha dato il successo. Questa volta il risultato, pur senza particolari shock e superlativi, non è solo grazie al marketing e al beneplacito di Quentin Tarantino che riesce a conquistare. Il merito è di un'idea forte alla base del soggetto e di un certo equilibrio nelle varie componenti filmiche. Roth riesce a governare una prima parte abbastanza routinaria, ma non insulsa, in cui si creano le premesse del terrore, con una seconda in cui l'attesa trova adeguato sfogo. Le scelte di regia non sono particolarmente originali (le soggettive delle vittime, il sadismo dei dettagli, la violenza centellinata e spesso fuori campo) ma efficaci, le musiche esaltano il crescendo di ogni sequenza senza la consueta invasione di botti in Dolby Surround e gli effetti speciali fanno il loro sporco dovere imbrattatore (parlare di gratuità, dato il soggetto, sarebbe poco consono). Gli interpreti si prestano con docilità alla mattanza, giostrandosi abilmente tra la superficialità richiesta nella prima parte e il raccapriccio necessario a sostenere la seconda. Alcuni momenti non si dimenticano, in particolare tutti gli incontri tra vittime e carnefici, che esaltano il contrasto tra i punti fermi della ragione e la deriva del "lato oscuro". Un luogo di non ritorno dove la vita umana si riduce a mera carne da brutalizzare. La complessiva riuscita non è però esente da difetti. L'atmosfera malata, l'assenza di apparenti vie di fuga, la crudeltà esibita, lascerebbero presupporre un forte coinvolgimento emotivo, invece il retrogusto ha un vago sentore di plastica. La causa è da ricercarsi nel debole abbozzo delle psicologie, nelle coincidenze narrative che ammorbidiscono l'impatto della conclusione, eccessivamente lineare e geometrica (il ruolo dei bambini, l'improbabilità della fuga e lo sbrigativo compimento della vendetta) e nel troppo blando substrato ideologico. La forte connotazione geografica (il male viene cullato a est, nei pressi di Bratislava) non trova infatti adeguato approfondimento, e il discorso politico si limita a un evidente quanto banale dato di fatto constatando come l'aberrazione sia figlia della disuguaglianza sociale. Così come è troppo ambiguo lo sguardo del regista nei confronti dei grossolani protagonisti, che vengono in Europa con un bagaglio di ignoranza e pregiudizi per cercare, non lesinando in tracotanza, ciò che nel loro paese si limitano a favoleggiare. Il modo in cui viene mostrata Amsterdam, poi, gronda luoghi comuni. Tolto quello che si sarebbe voluto dal film, resta il film così com'è. E l'insieme, pur con qualche riserva, intrattiene a dovere.
