TRAMA
Tra la periferia di Parigi e New York, Omar ed Emmanuel fanno tutto quello che è in loro potere per dimostrarsi l’un l’altro che non sono più innamorati.
RECENSIONI
Quello che apprezzo del cinema di Honoré è la sfrontatezza suicida, quel fregarsene leggero di ostentare un ombelicale manierismo, il disincanto con il quale rompe le uova nel paniere di certi suoi film: deviazioni impreviste, spudorate fratture intellettuali, scarti arrischiati e capricciosi che mandano l'equilibrio dell'opera a carte quarantotto. Dalla nouvelle vague, Honoré deriva la libertà espressiva, l'onnivora voracità nei confronti di ogni espressione della Settima Arte, la riflessione metacinematografica, elementi che, puntuali, si ritrovano in questo film nato come cortometraggio commissionato dal teatro di Gennevilliers, periferia parigina, e poi ampliato e sviluppato nella forma attuale.
La storia di questa coppia che elabora a distanza il proprio addio, incrociando amanti occasionali, diventa un saggio sul corpo (la sua rappresentazione) e sull'arte (i suoi oggetti e le sue modalità espressive): se il percorso americano di Omar ce lo rende invisibile, essendo rappresentato, a mò di videodiario, attraverso una camera digitale (la sua otto giorni newyorkese al seguito di Chiara Mastroianni è praticamente tutta in soggettiva, filtrata dal suo sguardo), il corpo di Emmanuel nell'habitat francese è invece spudoratamente visibile, scrutato come un oggetto di studio, esibito come una scultura, ripreso in 35 mm: l'uno mostra, l'altro si mostra. Questa differente modalità di rappresentazione non mette solo in evidenza le diverse motivazioni sentimentali dei due (Emmanuel si strugge, Omar semplicemente fugge; uno viene cercato, l'altro cerca), ma è alla base della centrale riflessione del film: il rapporto tra un'arte sincera e la sua modulazione più calcolatamente commerciale, attraverso situazioni che richiamano l'espressione creativa e il suo risvolto mercantile (Emmanuel che si fa pagare per denudarsi), elementi a distanza (letterale: Gennevilliers da una parte, New York dall'altra) che parendo parlare di una relazione amorosa giunta al capolinea, teorizzano astrattamente sul farsi arte della quotidianità, sulla sua mercificazione possibile, attraverso una serie di rimandi e di echi (Dustin che presta la sua vita all'occhio elettronico di Omar) che rimangono a livello di pura suggestione, senza svilupparsi mai in un discorso compiuto.
Homme au bain è un film godardiano che si nutre di letteratura e filosofia (Bataille, Nietzsche), gratuito della gratuità tipica del cinema di Honoré, grezzo e vitale, in cui poco accade, preferendo il regista suggerire possibili piste narrative, abbozzi di storie che rimangono sospese e incompiute; Honoré, se talvolta sembra far leva sulla realtà (Chiara Mastroianni che compare durante la prima americana del precedente film del regista; François Sagat, che mantiene un'identità sottilmente dichiarata di interprete porno - «Io con gli attori mi trovo a disagio» - e, dunque, di corpo/oggetto cinematografico/artistico, messa in crisi da un personaggio la cui dolcezza travalica le montagne - di muscoli -), d'altra parte fa sempre sì che la messa in scena appaia (o sia resa di forza) artificiale, dichiarata (lo slittamento di Mastroianni nell'ambito parigino).
Frammentario saggetto masturbatorio (il regista si nasconde dietro Omar), in cui si mette in scena un sesso malinconico che di hard ha soprattutto il tormento che lo presuppone (la presenza dello scrittore Dennis Cooper ce lo conferma), come opposto puntuale della meccanica asentimentale della pornografia, Homme au bain (titolo ispirato al quadro omonimo di Gustave Caillebotte, pittore di Gennevilliers - in questo collegamento pittorico, ma non solo, il film evoca anche il lavoro cinematografico di Warhol -) è una parentesi non del tutto inaspettata nel percorso cinematografico del regista francese, un'opera di cui, ancora una volta, si ammira, compiaciuti, la presuntuosa innocenza.