Drammatico, Familiare, Horror, Psicologico

HEREDITARY

Titolo OriginaleHereditary
NazioneU.S.A.
Anno Produzione2018
Durata127'
Sceneggiatura
Scenografia
Costumi

TRAMA

Ellen Graham muore insieme ai suoi misteri. Mentre la figlia Anne elabora il lutto di una complicata figura materna, nella casa dei Graham avvengono strani episodi, che sembrano presagire un epilogo tragico.

RECENSIONI

SCENA MADRE

La famiglia è il Male
Togli la scorza horror e Hereditary si mostra come il più classico dei family drama americani, quelli che affondano le loro radici nel teatro di Eugene ‘O Neill, Arthur Miller, Tennessee Williams o Edward Albee. La famiglia è da sempre lo specchio attraverso il quale l’America ama guardarsi: non solo il teatro, ma anche letteratura e (ci siamo) il cinema continuano a mettere in scena questo piccolo mondo che riflette, in scala, i grandi passaggi, i mutamenti epocali della Nazione. In scala, dicevo. E, tanto per operare la messa in abisso, la casa del film è un ulteriore modellino nelle mani della Madre, che riduce la realtà del nucleo familiare reale a microcosmo proiettivo e mentale nel quale prendono vita, nell’aspetto deformato del racconto paranormale, le figure del nucleo: siamo, insomma, ce lo dice l’incipit con chiarezza ineludibile, dentro il plastico di Annie (il Demiurgo, ovvero il genitore posseduto dall’ansia del controllo). Che sia la nonna la radice del male (come recita il sottotitolo italiano) è chiaro e lo racconta Annie al gruppo di ascolto (un monologo teatrale a tutti gli effetti): un marito depresso, un altro figlio schizofrenico che muore suicida, una figlia castrata (lei). È questo lo stigma, è qui che alligna l’ereditarietà (in linguaggio horror la maledizione): ereditaria è la personalità che plasma altre personalità, figli manipolati che diventano genitori manipolatori; aspettative-e-frustrazioni che evolvono in disagio-e-malessere, perpetuando lo schema generazione dopo generazione. Hereditary, non è che la versione delirante ed esoterica di drammi concreti e traumi laceranti (la malattia mentale, il lutto, i rapporti problematici e i silenzi inestricabili tra i membri del nucleo), che sono rivissuti, riprocessati (ed esorcizzati) nelle figure di un racconto satanico. Potremmo quasi dire che Hereditary, viaggiando in equilibrio delicato tra realismo e sovrannaturale, appiccica l’etichetta horror a una cosa che è già orrorifica di suo: la famiglia. O che dice in linguaggio esplicito quanto letteratura, teatro e (altro) cinema lasciano solo intendere (la famiglia è il Male).

Casa di bambola
Quindi, se è vero che si può ricostruire il filo visionario che percorre quel livello (tutta la questione del re Paimon, ampiamente spiegata in rete [1]) e comprendere quali siano «i rituali, amici e timori segreti» della defunta nonna a cui fa riferimento Annie nell’orazione funebre, ciò che rileva è la ben più devastante verità, offuscata dalla cortina del genere: dalla trappola familiare non c’è via d’uscita. Quello demoniaco è l’involucro che avvolge un nucleo realista. Quale? Ma il solito: l’ineluttabile passaggio di consegne dell’ingombrante bagaglio del karma familiare. Vecchia storia su cui il teatro americano ha lavorato spesso rifacendosi ai canoni della tragedia greca. Che qui non mancano: c’è tragedia - lo si dice durante la lezione a cui assiste Peter - quando non si è che pedine in una macchina inesorabile, quando l’eroe non ha scelta e non ci sono speranze di cambiare le cose. Quando si è incatenati nella prigione della casa di famiglia, in questo coacervo di ossessioni peculiari che ha le sue regole, si incarta nelle sue fissazioni, parla un lessico che suona straniero a chi non ne fa parte.
Annie, una donna che partorisce mondi per altri (i suoi modellini), qui genera il suo: vittima e carnefice, ricostruisce in piccolo la sua casa (di bambola - c’è anche dello strindberghiano, a ben guardare -), ci ragiona, la studia, rivive la tragica storia familiare in forma di piscodramma esoterico, vi proietta la sua interpretazione (tutti i membri della famiglia sembrano filtrati da una lettura macabra; diversissimi tra loro, sembrano quattro estranei con nessun elemento fisico che li accomuni: Charlie è una sorta di bambola freak, il padre è un’ameba di passività surreale, Peter è un ragazzo confuso dalla pelle olivastra) e cerca di cogliere la logica di quel male che si è abbattuto su di lei e che lei ha rifratto sui figli; tenta di gestirlo, ribaltarlo, a cominciare dall’elemento che quel male glielo ha trasmesso: il mostro che sua madre era e che l’ha resa il mostro che è.

[1]  Il regista ha affermato che il film rappresenta la possessione dal punto di vista delle sue vittime sacrificali, che vivono nell’ignoranza di ciò che va accadendo. Questo spiega lo spiazzamento dello spettatore, dato che questi vive la stesso stato di confusione che regna nella famiglia e dunque accoglie il finale con la stessa identica sorpresa. Trovate la spiegazione della storia del film qui.
In sintesi estrema: la nonna, consacrata al culto di Paimon, uno dei re dell’Inferno, usa i discendenti maschi come veicoli carnali dello spirito maligno. Annie però è riuscita, dopo aver tentato di abortire, a sottrarre il suo primo nato, Peter, alla sua influenza. Quando resta incinta di Charlie (le viene imposto un nome maschile come se fosse predestinata) costretta ad accogliere in casa la madre, Annie non riesce a non consegnarle la figlia («I gave her Charlie») che, pur essendo femmina (la nonna la voleva maschio, non a caso), si prende in carico il demone. Annie cede la bambina vedendo in questa resa il prezzo da pagare per proteggere il resto della famiglia. Morta Charlie nell’incidente (probabilmente non casuale, ma anch’esso parte di un disegno del maligno), Paimon deve passare nel corpo di Peter e la medium Joanie, sodale della defunta nonna, è lo strumento attraverso il quale, con il subdolo avvicinamento di Annie, viene resa possibile l’attuazione del processo. Peter quindi finirà con l’ospitare il demone che intanto ha ucciso i suoi genitori.

Madre-mostro
Madre-mostro come quella di Gente comune (nella recensione di Manchester By The Sea lo definivo «la matrice del cinema familiare made in USA degli ultimi 40 anni») di cui Hereditary è l’ennesima variazione su tema (Giulio Sangiorgio, in un illuminato commento al film su Film TV n. 32/18 parla esplicitamente di remake horror del film di Redford):
La madre-mostro è la figura simbolo nella rappresentazione della famiglia disfunzionale americana di questi anni: non più guida dei figli, non più riferimento amorevole, ma figura cinica, egoista & egocentrica, gonfia di risentimento, che plasma o tenta di plasmare l’esistenza dei figli. Mary Tyler Moore in Gente comune, appunto (la madre di tutte le madri-mostro al cinema [1]), come Susan Sarandon di Igby Goes Down, come Annette Bening di Camminando con le forbici in mano, passando per le genitrici assenteiste di Wes Anderson, la Kidman castrante di Il matrimonio di mia sorella di Baumbach, la Streep di Osage County eccetera eccetera fino a sbarcare qui, nel seno di una monumentale Toni Collette (Oscar subito) che è l’ultima folgorante edizione della stessa figura, come Gabriel Byrne lo è del padre remissivo (Donald Sutherland, Gente comune), già replicato nell’ennesima variazione Segreti di famiglia (in cui Isabelle Huppert era madre-mostro soprattutto post mortem). Ma insomma sarebbero troppe le strade da intraprendere (anche quelle meno ovvie, basti pensare a Refn e a Solo Dio perdona - la madre no, potrebbe esserne il sottotitolo -), troppi i riferimenti, ci siamo capiti.

[1]
Su tutte aleggiando la madre tossicodipendente di
Lungo viaggio verso la notte di ‘O Neill.

I am your mother

Annie che, tra l’altro, di fronte al classico confronto tra sensi di colpa (il suo: aver imposto alla figlia di andare alla festa contro la sua volontà; quello del figlio: aver liquidato la sorella al party mandandola a mangiare quella torta che è stata causa della sua reazione allergica e della fatale corsa notturna), sventola a mò di bandiera l’argomento principe di tutte le madri-mostro, un manifesto autoevidente, che si esaurisce in quattro parole: «Io sono tua madre». Che è come dire che questa partita di sensi di colpa non si ha neanche da giocare: il figlio deve soccombere contro la madre, deve arrendersi alla sua responsabilità prima che elabori un antidoto. Del resto quella rimozione - reduce dall’incidente, Peter si avvia verso la camera da letto senza nulla dire, attendendo la scoperta macabra del cadavere decapitato - già sottende un’ammissione di colpa.
Una madre che rimane una madre e che, dopo quella scena feroce, dopo aver confessato in sogno l’orrore di non aver voluto quel figlio che oggi, sì, ama moltissimo, e di aver tentato di abortire «in ogni modo» cerca di dare una sterzata alla famiglia posseduta dalle maledizioni del passato, di riscattarla da quell’influsso di cui lei stessa si è fatta interprete e dispensatrice.
Ari Aster gira un film che più che all’ovvio Polanski mi fa pensare alla potenza metaforica di L’ora del lupo di Bergman (soprattutto per il modo in cui vira nell’allucinazione il nodo psicanalitico) e al coraggio della visionarietà simbolica di un Lynch (ma rinunciando all’insolubilità del mistero e spiegandolo), un’opera complessa che, non sottraendosi alla ricostruzione, rimane ambivalente nel suo convertire in metafora la lotta di una donna, allestita nel suo set privato (Hereditary come film sulla messa in scena del teatro familiare?): in quel plastico la donna mette in piedi - deforme, diabolico - il suo dramma. Una battaglia che perde, laddove suo figlio è già pronto a ereditare lo scettro di quel potere traviante, a regnare sulla prossima generazione, a trasmettere il malessere intatto.

PALINDROMO

Vorrei provare a ribaltare la prospettiva, peraltro condivisibile, di Luca Pacilio. Ossia fare il percorso opposto, vedere Hereditary come un horror puro che inzialmente depista con il dramma familiare. Da questo punto di vista, il film di Aster riesce dove The VVitch aveva fallito, ossia presentarsi come un falso Horror, pretesto di genere per parlare di altro (integralismo religioso, la misoginia, le pre- e la post-adolescenza, la disgregazione della famiglia), da chiudere però in purezza horrorifica (il rito stregonesco nel bosco). Solo che il film di Eggers, ricercatamente arty fino all’autoparodico, smentiva le ambiguità disseminate in precedenza senza dare, in cambio, una svolta di Genere seria e credibile. Hereditary, al contrario, ha il coraggio delle sue azioni e perfeziona le sue scelte. Tutti i discorsi meta-rappresentativi (le miniature come set nel set), la serietà Drammatica di film sul rapporto madre-figlio, sull’ereditarietà delle colpe (e dei mali) genitoriali, vengono ricondotti e sublimati nelle derive propriamente Horror che il film prende nella parte finale. A tutto quanto c’era di realistico, metaforicamente serio viene data una credibile spiegazione sovrannaturale. I tasselli vanno al loro posto. Come se Ari Aster (ci) dicesse: guardate che è tutta colpa di Paimon, le sedute spiritiche sono sedute spiritiche, le possessioni demoniache sono possessioni demoniache. Non ho scherzato. Senza la presenza, ab initio, di questo demone dell’inferno, la famiglia non sarebbe una famiglia disfunzionale, il fratello di Annie non si sarebbe suicidato, la nonna non si sarebbe ammalata di Alzheimer e Annie stessa sarebbe stata una madre amorevole, senza istinti abortivi. È un Horror. Il Diavolo esiste, ed è un rovinafamiglie.
La cosa straordinaria è che il film funziona perfettamente sia nell’una che nell’altra direzione, come una specie di palindromo concettuale: falsohorror - verodrammafamiliare / falsodrammafamiliare - verohorror. Nessuno rimane deluso, sia che lo legga in un modo o in un altro. E tutti si possono gustare una regia perfetta, col piano fisso come cifra stilistica privilegiata e un lavoro incentrato sul profilmico, più che sul filmico. Tutta la sequenza della morte di Charlie, l’interminabile lungo primo piano su Peter, la sua reazione negazionista, terribile quanto perfettamente credibile, le urla della madre fuori campo, sono di una potenza davvero rara. E preziosa.