Drammatico, Sala

HAPPY END

Titolo OriginaleHappy End
NazioneFrancia/ Germania/ Austria
Anno Produzione2017
Durata107'
Sceneggiatura
Montaggio

TRAMA

In una sontuosa magione borghese a Calais, spazio di transito per i rifugiati, la ricca famiglia Laurent, riflesso di una società votata all’egoismo e all’infelicità, vive la propria vita in modo anaffettivo e cinico, senza rendersi conto di non sapere più cosa conta veramente nella vita.

RECENSIONI

Se avessero mai chiesto ad Haneke di girare la puntata zero di una soap alla Dynasty, probabilmente avrebbe consegnato agli increduli produttori nient’altro che questo Happy End. Una sfarzosa residenza signorile a Calais, nel nord della Francia, in cui vivono più generazioni della famiglia Laurent, imprenditori di lunga data. Ereditato lo scettro dall’anziano padre George (Jean-Louis Trintignant), vedovo colpito da demenza senile e desideroso di morire, l’algida Anne (Isabelle Huppert) è ora la capo clan. Gestisce la redditizia impresa famigliare ed è fidanzata con Lawrence (Toby Jones), avvocato inglese con cui sta negoziando un importante contratto. Ha un figlio buonannulla e con il vizio dell’alcool, Pierre, la cui negligenza sul lavoro ha provocato un catastrofico incidente per cui l’azienda dovrà rispondere in tribunale. Anne ha anche un fratello, Thomas (Mathieu Kassovitz), occupato a nascondere una bollente relazione extraconiugale alla compagna, dalla quale ha appena avuto un bambino. Arriva in casa anche Eve, figlia di Pierre dal primo matrimonio, ora che la madre è in ospedale, in punto di morte, dopo un’overdose di medicinali (di cui Eve, ci viene fatto sospettare, potrebbe essere l’artefice). Fuori dal gran palazzo, orde di immigrati africani vagano per le vie della città, nell’attesa di attraversare illegalmente il tunnel della Manica.
Adottando l’usuale glacialità dei toni, rafforzata dal ritorno di Christian Berger alla fotografia (dopo la parentesi Darius Khondji in Amour), il film ripropone tutti i temi classici dell’autore austriaco. Il concetto di violenza viene ribadito come nucleo fondamentale al cuore dell’opera hanekiana (di cui i due Funny Games rappresentano forse l’apice concettuale), qui dispiegato fra famiglie disfunzionali e vendette inter-generazionali, solipsismo borghese e soppressione della colpa. Tornano i bambini come germogli e veicoli del male (Il nastro bianco), l’ipnosi video e l’alienazione degli schermi (Benny’s Video), la tensione razziale (Storie), l’esplosione dell’oscenità repressa (La pianista), l’ambiguità del peccato borghese (Niente da nascondere), il tema dell’eutanasia (come in una sorta di sequel di Amour, l’anziano patriarca confessa di aver aiutato la moglie a morire e di desiderare per sé lo stesso tipo di fine). Per mezzo di una narrazione testardamente frammentata, Haneke compone così un mosaico scheggiato che, al solito, gioca con il disagio dello spettatore. L’assemblaggio dei pezzi è un’operazione che funziona solo a metà: se da un lato mostra chiaramente la coerenza della poetica dell’autore, confermando in più di un passaggio l’efficacia di uno sguardo che lo pone ai vertici del cinema d’autore contemporaneo, dall’altro lato è come se il tableau rimanesse incompleto, come se l’interesse dei singoli frammenti non riuscisse a comporre un insieme altrettanto forte. Analogamente, non tutti i personaggi si presentano allo stesso grado di interesse: mentre Thomas e la piccola Eve, personaggi eminentemente hanekiani, brillano di un loro fascino oscuro, la protagonista Anne e il figlio Pierre faticano a ritagliarsi una caratterizzazione appassionante.

Happy End può essere dunque visto, forse un po’ semplicisticamente, come una sorta di greatest hits hanekiano. Le sue imperfezioni e limiti non precludono però interessanti aree di riflessioni. Visto nel complesso della sua opera, infatti, il film sembra suggerire il ritorno ad un atteggiamento formale più vicino ai primi esempi del suo cinema, un’impostazione che affonda le radici in un formalismo concettuale di misantropica rigidezza, in parziale deroga dalle tendenze più lineari o narrative dei film immediatamente precedenti (Amour, Il nastro bianco). Assistiamo dunque ad un ritorno prepotente del concetto e, come detto prima, della frammentazione, e fra tutti i frammenti messi in campo il più interessante è probabilmente quello che coinvolge l’uso di una varietà di schermi video. In un lungo piano sequenza quasi all’inizio del film, ci fondiamo distanti con l’occhio di una videocamera di sorveglianza che fissa muta l’enorme scavo di un cantiere, finché le pareti franano uccidendo un operaio, marchiatura in digitale delle conseguenze di una negligenza morale che Pierre, al pari dell’impassibilità della registrazione, non è disposto ad affrontare. Ma soprattutto, notiamo l’interesse di Haneke per i social media, in particolari dei servizi di live streaming e messaggistica istantanea, che in più di un’occasione diventano l’accesso visivo attraverso il quale seguiamo la narrazione. I media e le loro specificità sono solo gli ingranaggi, l’elemento cruciale rimane lo schermo – di un cellulare, di un tablet, di un computer. Lo schermo filtra e annulla le emozioni: la crudeltà (l’uccisione del criceto) e l’inenarrabile (la tentata uccisione della madre?) diventano azioni accettabili nella traslazione su di una dimensione altra, una realtà digitale editabile con l’inserimento di frasi, caption, emoticon. Dal lato opposto del prisma, lo schermo favorisce l’espressione del desiderio represso, spesso di matrice sessuale, e la formazione di una dialettica dell’osceno che può dispiegarsi senza censure (le chat erotiche fra Thomas e l’amante). Questo uso della componente video costituisce quindi una sorta di aggiornamento, necessario, degli shock VHS di Benny’s Video. L’analisi di Haneke non sembra tanto voler puntare il dito contro la sociopatia istigata dai nuovi media, quanto piuttosto testimoniare – più ambiguamente – l’istituzione di un nuovo livello oscuro della realtà, un buco nero digitale entro il quale la natura umana può consegnarsi alla mercé delle proprie nefandezze.
Sembra però che Haneke cerchi ad un certo punto di calare la sua riflessione formale all’interno di un contesto storico e sociale ben preciso, quasi a voler riscaldare il proprio piglio concettuale per trasformare l’allegoria famigliare in un chiaro atto d’accusa. È in questo passaggio che il film rivela una sua debolezza, laddove l’ambientazione a Calais e l’ingresso della questione migranti nella storia appare come una forzatura. Al contrario di quanto succede in Niente da nascondere, in cui l’evocazione del represso coloniale francese deflagra con incedere ambiguo e insidioso, qui il riferimento alla crisi dei valori che affligge l’Europa intera manca di sottigliezza. Al pari della violenza con cui il gruppo di immigrati irrompe al grande pranzo di famiglia, la questione umanitaria viene inserita a forza come appendice ai fatti principali, a cui dovrebbe fare da chiosa.
Con un asticella sempre più alzata, film dopo film, far fronte alle aspettative non è stato facile per Haneke: Happy End, nonostante i punti di interesse, rimane un’opera minore nella sua incredibile filmografia. Ma mai sottovalutare un maestro, fino all’ultimissimo fotogramma: quello sguardo della Huppert, disorientato e sconvolto, verso la piccola Eve che filma impassibile con il suo smartphone il tentativo di suicidio del nonno, vale tutto il film.