
TRAMA
31 Ottobre 1963. Il piccolo disadattato Michael Myers uccide un bulletto della scuola, il patrigno, la sorella e il fidanzato della sorella e viene prevedibilmente internato in un Ospedale Sanitario. 16 anni dopo riesce a scappare e…_x000D_
RECENSIONI
Più “aggiornato concetto di prequel” che classico remake, questo Rob Zombie’s Halloween lascia un po’ interdetti. Avevamo lasciato Robert Cummings con il bellissimo The Devil’s Rejects e lo aspettavamo con ansia al suo ritorno dietro alla macchina da presa ma, per motivi forse prevedibili (necessaria, rispettosa fedeltà al testo di riferimento?), ci troviamo di fronte a una generica “normalizzazione”. L’operazione che a Zombie era perfettamente riuscita, recuperare (rectius: ri-creare) veramente, senza infingimenti e ipocrisie, lo spirito genuinamente eversivo dei 70s cinematografici, qui pare parzialmente abiurata in favore di un “qualunque” ritorno integrativo a un classico (cfr. il purtroppo omologo Non aprite quella porta: L’inizio). Spiace dirlo ma fatto solo parzialmente salvo (e ampiamente edulcorato) l’armamentario visivo contundente dei precedenti lavori di Rob (asfittici primi piani, cinepresa “nervosa”, montaggio killer), in questo Halloween mancano quasi del tutto sia la ferocia iconoclasta sia l’ambiguità tout court che sembravano diventati i suoi marchi di fabbrica. Minata da un peccato originale difficile da redimere, infatti (mai svelare il background esplicativo di un Killer Mitico e Misterioso, Hannibal Rising docet), la sceneggiatura colma le ellissi del film di Carpenter adagiandosi su stanchi topoi delinquenziali (la non-famiglia disastrata, la sociopatia, le vessazioni dei bulli della scuola) per proseguire su binari altrettanto prevedibili (la detenzione del piccolo Michael, il rapporto col Dr. Loomis) fino alla sezione schiettamente remake, sostanzialmente fedele all’originale ma apparentemente poco “sentita” e piuttosto ordinaria, sia dal punto di vista puramente effettistico-splatter che, soprattutto, registico e narrativo; l’ultima parte del film si presenta così come un esemplificativo compendio dello stalk’n’slash che, a partire proprio da John Carpenter’s Halloween (1978) e dal suo primo figliastro Venerdì 13 (Sean Cunningham, 1980), monopolizzò l’horror anni ’80, dove un assassino apparentemente inarrestabile insegue le sue vittime armato (preferibilmente) di grandi coltellacci e “la violenza si sprigiona su personaggi femminili sessualmente indipendenti ed emancipati” mentre “a sopravvivere sono le eroine virginali, caste e sottomesse” (Curti/La Selva). Curiosa, al limite del sospetto, la totale assenza di soggettive di Michael Myers, che invece avevano caratterizzato il suo debutto cinematografico (si ricordà la sequenza di apertura di Halloween, chiusa dal controcampo rivelatore sul volto del killer-bambino). Restano, si accennava, alcune cifre registiche del Nostro, così come zombie-ane ci paiono alcune crudeltà inattese (l’uccisione del “carceriere buono”), le sferzate di humour sguaiato (la sequenza con protagonista Grizzly) e la scelta delle musiche (Kiss, Rush, Blue Oyster Cult, Nazareth) oltre, naturalmente, al solito cast folkloristico e in gran parte (già) autoreferenziale (Malcolm McDowell, Sheri Moon Zombie, William Forsythe, Udo Kier, Ken Foree, Danny Trejo, Lew Temple, Bill Moseley, Leslie Easterbrook e così via…).

Aprendo Halloween con un piano sequenza in soggettiva (marcata/mascherata) di ben 4’, Carpenter settava il suo film su un regime ottico intriso di malvagità. Sguardo ad altezza occhio + movimento (+ respiro) = male pronto a colpire. La steadycam, poi: un modello costruito appositamente per assicurare un’infallibile stabilità d’asse. Uno sguardo umano e diabolico al tempo stesso, una finestra spalancata dal male sul mondo degli uomini. E tutto questo con uno splendido, incredibile paradosso: a rigore, dopo il determinante piano sequenza iniziale, a Michael Myers NON è più concessa la titolarità dello sguardo. Crediamo che sia lui a guardare, ne siamo convinti ma non è così: la mdp è sempre leggermente dissociata dal suo sguardo, il gioco tra queste due istanze è di una sottigliezza fenomenale. A volte ci troviamo di fronte a semisoggettive (vediamo il corpo di Michael in parte o per intero e insieme ciò che lui sta guardando), altre volte a false soggettive (crediamo di osservare il mondo dai suoi occhi ma lui, lentamente, entra nell’inquadratura e manda a gambe all’aria le nostre supposizioni), altre ancora a semplici adiacenze ottiche (la cinepresa è in macchina con lui, ma collocata nel sedile posteriore o in quello alla sua destra). Michael ha avuto accesso alla soggettiva vera e propria soltanto una volta. E questa volta è bastata a infettare lo sguardo. Di fatto, tutto il film, grazie alle suddette modalità di ripresa, è come se fosse “spiato” dagli occhi di Michael (effetto inoltre intensificato dai numerosi oggetti d’ingombro sull’asse camera/scena) e paradossalmente gli unici momenti di tregua sono rappresentati dalle vere soggettive di Laurie, realizzate con una canonicità sintattica tale (A: lei che guarda; B: ciò che lei vede; A: di nuovo lei che guarda) da non lasciare spazio a dubbi sull’intenzionalità del progetto. Evidentemente a Rob Zombie questi algoritmi visivi non interessano affatto e spara inquadrature a casaccio, interessato esclusivamente a incasinare il teorema carpenteriano. Del piano sequenza iniziale non c’è traccia (la scena ha un’impostazione completamente diversa), l’interdizione alle soggettive per Michael semplicemente cessa di esistere (è vero che anche qui le sue soggettive non abbondano ma in almeno due sequenze – sulla porta della sua vecchia casa e sul bordo della piscina vuota – ce ne sono di inequivocabili) e, parallelamente, la creazione di “oasi di sicurezza” attraverso gli sguardi di Laurie (o del piccolo Tommy o del dr. Loomis) non ha più ragione d’essere. Lo schema ottico/semantico di Carpenter salta per aria, insomma, e Zombie non fa altro che trastullarsi coi frammenti. Che sia un bene, un male o una caramella mou proprio non saprei dire. Certo è che la concentrazione estetica dell’originale va a farsi friggere e che nella parte squisitamente remake (la seconda: la prima è una integrazione psicologica un po' grossolana non priva di una sua perversità) si ha più che altro la sensazione di un macello (non di macelleria, ahimè!) piuttosto incolore. Belle toste le due sequenze di inforchettamento e scatenamento di Michael (genitivi soggettivi) e apprezzabile l’urlazzo finale copiosamente irrorato di sangue. Ma, eccezion fatta per queste saporite parentesi gory, Halloween – The Beginning è un film moderatamente deludente. Soprattutto dopo The Devil’s Rejects, un saggio di cinema di platino striato di piombo e polvere da sparo. Che Zombie, furbacchione, abbia fatto il pieno per realizzare qualcosa di più personale?
