Drammatico, Fantascienza, Focus, Recensione

GRAVITY

NazioneU.S.A., U.K.
Anno Produzione2013
Durata90'
Scenografia

TRAMA

La dottoressa Ryan Stone è un brillante ingegnere biomedico alla sua prima missione spaziale insieme al veterano Matt Kowalsky. Durante quella che doveva essere una passeggiata di routine, succede l’imprevisto. La navicella viene distrutta e Stone e Kowalsky sono abbandonati a loro stessi, legati l’uno all’altra mentre precipitano nel buio. Il silenzio assordante ricorda loro che hanno perso ogni legame con la Terra… e ogni speranza di salvezza. La paura diventa panico, ogni boccata d’aria riduce il poco ossigeno rimasto. Ma forse l’unico modo per tornare a casa sta proprio nell’andare verso la terrificante distesa dello spazio.

RECENSIONI

Gravity è, probabilmente, il film più importante che uscirà in sala in questa stagione. Per almeno tre ragioni.
Primo, una grossa produzione (il budget è stimato in $ 100 milioni) sposa un’idea drammaturgica decisamente radicale: due astronauti che fluttuano nello spazio per raggiungere una navetta e tornare sulla Terra. In confronto a questo, le unità aristoteliche sono un programma permissivo. La storia si svolge quasi in tempo reale, in uno spazio che lo spettatore abbraccia con lo sguardo sin dall’inizio e l’azione è tutta esaurita nell’esecuzione di un unico specifico compito.
Secondo, Cuaron e compagnia danno al 3D un senso pieno e solido, adulto e consapevole. Ci sono delle piccole baracconate e dei giochetti che si collocano tra l’innocuo e il tamarro (anche la famosa lacrima supera il confine del kitsch), ma complessivamente Gravity porta il 3D a un livello di maturità sicura, facendone uno strumento affilato usato per esplorare un’idea precisa di filmmaking, di spazio e di movimento e non viceversa, come i più hanno fatto fin qui.
Terzo, e di gran lunga più rilevante, Gravity è un film per lo più creato con computer e robot. La quantità di immagini computerizzate (CGI) è preponderante rispetto a quelle “reali”. Delle passeggiate nello spazio, ad esempio, l’unica cosa ripresa con una macchina da presa nel mondo reale sono le facce di Clooney e Bullock (che venivano chiusi per ore dentro un cubo di tre metri (light box) e illuminati da schermi al LED che cercavano di rendere coerente la luce riflessa sul volto con le fonti di luce che gli sarebbero state costruite intorno al computer). Lubezki, il direttore della fotografia, ha lavorato a stretto contatto con Webber e il team di tecnici CGI della Framestore a Londra. Negli interni, la Bullock si muoveva grazie a robot che la sollevavano senza sforzo e lo spazio in cui gli attori erano immersi non ha assolutamente nulla di quello in cui noi li vediamo muoversi. Questa smaterializzazione sfida il DNA di ciò che abbiamo chiamato cinema fino ad ora, siamo dalle parti di qualcosa di diverso, un cinema post-corporeo che mette in discussione la fisica dell’immagine in movimento.

Il pregio del film, però, è saper creare del senso – un senso specificamente cinematografico – da questo enorme, innovativo e ingombrante apparato tecnologico. Un senso nuovo che pone alcune questioni su come il cinema del futuro tratterà i concetti di spazio, movimento e narrazione. Tra i vecchi attrezzi novecenteschi, quello che sembra assomigliare di più al film di Cuaron è il videogame da bar. Del gioco computerizzato Gravity ha non soltanto la genesi digitale ma soprattutto la fabula essenziale, spogliata da ogni digressione o complicazione (astronauta deve raggiungere stazione spaziale schivando ostacoli prima che finisca l’ossigeno) e il peculiare rapporto con lo spettatore. Quest’ultimo, in particolare, segna una vera e propria novità rispetto al passato. Gravity è un’esperienza dei sensi che immerge lo spettatore in uno spazio in movimento, stimolando efficacemente una vera e propria risposta fisica a ciò che accade sullo schermo. I protagonisti sono degli avatar, una pura proiezione CGI dello spettatore che ha poco o nulla a che fare con connotazioni psicologiche, storie e passato dei personaggi. Il legame tra spettatore e personaggio si nutre di un semplice movente basico (la sopravvivenza) ed è interamente costruito sul movimento nello spazio virtuale tridimensionale e sull’esperienza sinestetica. Siamo una mutazione genetica più in là dal vecchio concetto di “identificazione”. In questo, Gravity va ben oltre l’esperimento tentato da James Cameron con Avatar, in cui il nocciolo della risposta emotiva (benché amplificato all’estremo dalla girandola tecnovisiva) era classicamente ancorato alla costruzione dei personaggi, dei loro conflitti, della loro evoluzione, come nella migliore tradizione dello storytelling hollywoodiano. Qui, invece, la faccenda è completamente scarnificata: l’immagine in movimento basta quasi a se stessa, in una specie di cinema radicale. La connessione all’avatar, a differenza della tradizionale identificazione, non ha bisogno di processi psichici complessi: il personaggio è lo spettatore e tutto intorno c’è il gioco computerizzato.

Ed è qui che Gravity comincia a traballare. C’è un misto di codardia e di arroganza nello script firmato dai Cuaron, padre e figlio. La codardia sta nel non aver portato fino in fondo le conclusioni formali di Gravity, sporcando la purezza del gioco cinematico con una storiella edificante, trita e mal scritta. L’arroganza, invece, sta invece nel pensare di poter replicare agevolmente nella scrittura il notevole risultato ottenuto nella fotografia. Non avevamo bisogno di sapere che Kowalski è un tipo simpatico né, soprattutto, che la dottoressa Stone è stata colpita da una terribile disgrazia. Ci muoviamo con loro, tendiamo alla soluzione del gioco con loro: in un certo senso, siamo quei due personaggi esattamente come lo sono Clooney e Bullock (del resto, la differenza sta nella faccia, il resto è tecnomagia, per noi come per gli attori). Più li vediamo caratterizzati, definiti, animati da sottotesti metaforici, meno funzionano come pure proiezioni animate del nostro desiderio ludico. Se poi la costruzione drammaturgica è maldestra, pigra e mediocre come nella sceneggiatura dei Cuaron, allora l’handicap è enorme e la magia scricchiola sotto il peso morto dello script: storie di background piagnucolose, dialoghi e snodi mediocremente arrabattati, grandi metafore incollate col vinavil a rendere opaco e spurio quello che avrebbe dovuto essere un purissimo gioco di movimento. Gravity avrebbe potuto essere puro gioco radicale – e in quel caso staremmo qui a interrogarci se si tratti ancora di Cinema o di qualcos’altro (cinegame, forse) e se sia in grado di produrre senso oltre all’emozione ludica. Oppure avrebbe potuto trascendere il bellissimo gioco meccanico per rapportarsi su più livelli (e a doppio senso) con lo spettatore – e allora sarebbe stato un altro film, potenzialmente un capolavoro. Invece, si è scelto di appiccicare figurine e dialoghi mediocri a una fotografia e a una regia capaci di far riflettere sul futuro della settima arte. Forse è colpa della hybris di Cuaron, grande regista che erroneamente si crede un grande autore a tutto tondo; forse era il solo modo di farsi finanziare un progetto già parecchio audace. Quale che sia la causa, senza dubbio è una iattura.

Cuore e Batticuore

Dopo l’eccellente adattamento del romanzo di P.D. James Children of Men (2006), Alfonso Cuarón torna alla fantascienza (anche se sarebbe meglio dire “scienza”) nel tesissimo Gravity, film contemporaneamente di grandi e piccole dimensioni acclamato alla 70ma mostra del cinema di Venezia, al Telluride Film Festival, e al Toronto International Film Festival. Sceneggiato dallo stesso regista insieme al figlio Jonás Cuaron (già distintosi nel 2007 con l’opera d’esordio Año Uña), Gravity ha avuto una gestazione lunga e tormentata, con vari attori e attrici di prim’ordine interessati al progetto, ma che lo hanno abbandonato. La scelta finale della coppia Bullock-Clooney, formatasi più per caso che per desiderio dello studio, risulta essere molto felice: difficile infatti pensare a un cast migliore di questi veterani di Hollywood, che con il loro calibrato carisma riescono a dare vita a un film quasi interamente creato al computer, e il cui effetto sullo spettatore è paragonabile a delle gigantesche montagne russe lunghe novanta minuti. Gravity si basa su un concetto semplicissimo, ma di difficile realizzazione tecnica e drammaturgica: l’angoscia dell’isolamento, lo sgomento e il terrore provati da ogni essere umano all’idea dell’abbandono, del naufragio in un luogo in cui non esistono le condizioni per sostenere la vita. Grazie alla fluidità della cinepresa di Cuarón, il cui talento per movimenti di macchina arditi e innovativi si era già manifestato nelle sue pellicole precedenti, lo spettatore si ritrova a vivere in prima persona la lotta per la sopravvivenza di questi novelli prometei, condividendone l’angosciante alternanza di claustro e agora fobia, la solitudine e l’umana fragilità. Complice del successo del film è anche e soprattutto lo strabiliante livello di realismo raggiunto nella rappresentazione di questa sfortunata passeggiata spaziale di kubrickiana memoria, sottolineato garbatamente da un uso discreto del 3D e da una colonna sonora minimale ed efficace di Steven Prince.

Nel nuovo film di Cuarón ci sono due elementi che giocano la stessa partita, simili eppure distanti anni luce nel modo di declinare un fattore comune: la semplicità. C’è infatti un scollamento tra la semplicità funzionale all’incanto dell’allestimento (che in realtà, si è notato, sottende un lavoro tecnologico raffinato, al limite dell’abbandono della corporeità) e la scarna e povera invenzione drammaturgica, con tanto di rinforzi ‘vociati’ di incitamento alla rigenerazione, alla capacità di lasciarsi alle spalle un peso per risollevarsi dal desiderio della fine, o finalmente precipitare in un nuovo inizio.
Se l’instabilità morbida e fluttuante della situazione spaziale (in senso letterale e non) risulta di immediata presa sullo spettatore, non allo stesso modo sembra di poter comprendere e farsi ‘prendere’ dall’aspetto esistenziale, dal duro antefatto e dal rivolgimento interiore della protagonista, fin dal momento in cui si impone la sua portata drammatica. L’invenzione visiva e l’illusione di partecipazione resta potente, in effetti, finché la dimensione rarefatta dello spazio tempo prevale su quella ‘storica’, decisionale, volontaria: la condivisione, insomma, funziona finché vale la sospensione (letterale e non), l’assenza di gravità (o il tentativo di renderla tale: si pensi alla funzione terapeutica e maieutica del ‘compagnone’ Clooney). Arriva poi, in un crescendo di soliloqui, il monologo di accettazione e autoesaltazione prima del ritorno: invadente, eccessivo, retorico, al limite del ridicolo in un film che funzionerebbe ugualmente rispettando un doveroso mutismo dalla sua metà in poi.
Si può però pensare che questo scollamento, quella differenza non sia involontaria; che sia legittimo che il coinvolgimento cambi segno e genere quando Ryan recupera la volontà e con essa la capacità di capire, cogliere e rispettare l’occasione di sopravvivenza (di vita) che le viene offerta, o meglio, affidata. Avremmo allora un progressivo individualizzarsi del personaggio, una riappropriazione a cui farebbe seguito, coerentemente, il distacco dello spettatore. A sostegno di questa idea, si potrebbe annoverare la dialettica per cui questa lotta per la sopravvivenza nel vuoto, reale e astratta a un tempo, richiama simbolicamente quella lotta radicale, originaria eppure concretissima tra essere e nulla che avviene in ogni processo di concepimento – gestazione – nascita: si pensi all’apnea della fecondazione (la mancanza di ossigeno), all’installarsi dell’embrione del grembo materno (la scena in cui Ryan si toglie la tuta, forse la più bella, e resta in posizione fetale circondata, per un gioco di sovrapposizioni, da una sorta di cordone ombelicale), al periglioso viaggio per arrivare alla nave-madre e infine al ‘travaglio’ rischiosissimo della caduta e del ‘parto’ in acqua, dopo il quale con sorpresa ci si riscopre capaci di respirare da soli e di camminare, pesanti, sulle proprie gambe. Per questa stessa dialettica la ‘situazione’ simbolica, il doppio segno di parentesi in cui si iscrive, come abbandono a un destino di annullamento desiderato e rassicurante, la risposta a un evento insostenibile (la morte della figlia), diventa reale con l’incidente dell’astronauta (altrettanto imponderato) e torna a farsi simbolica per rappresentare l’evento di segno opposto (la ri-nascita).

Da questo punto di vista, il fattore ‘senso’ del film, oltre il gioco della percezione, al di là della retorica del parlato, sembra recuperare una sua ‘gravità’. Il fascino avrebbe forse voluto che l’antefatto fosse lasciato al silenzio più a lungo, magari recuperato in una agnizione finale dello spettatore; è anche vero però che questa mancanza di mistero, che leggiamo per cultura e sensibilità come ‘riduzione’, può essere meno arrogante dell’ossessione per l’implicito.
Ancor più dell’arroganza nel voler dare spessore a un enorme problema di ‘senso’ con il solo gioco sapiente della percezione, resta però valida una dispersione di intenti che fa immaginare l’opera finale come ricerca di un compromesso più che come organismo coerente. La verosimiglianza avrebbe forse richiesto qualcosa di diverso dal ‘suggeritore’ Matt per la svolta che separa la rassegnazione, schiacciata dalla colpa e dall’inadeguatezza, da un’eccitata riappropriazione delle proprie facoltà, che per lucidità e consapevolezza supera di molto un semplice, imponderabile istinto di sopravvivenza. Per questo, la ‘caduta’ del viaggio di ritorno ha l’aspetto di un congedo frettoloso, sproporzionato rispetto a tutta la dilatazione precedente, non perché repentina, quasi istantanea, ma perché il ‘parlato’ che l’accompagna dovrebbe de-costruire una complessità storica di relazioni e psicologie che prima non è stata costruita se non per pochi tratti funzionali alla situazione e non a una ‘storia’. In questo caso, il coraggio avrebbe voluto, forse sì, un silenzio prolungato, che avrebbe valorizzato quei tratti di ‘senso’ che proprio nel silenzio sembravano già aver trovato il loro ‘peso’.

A molti anni da I Figli degli Uomini, un altro progetto fanta-umanistico per Alfonso Cuarón, per quanto fondato su tecnologie contingenti (non è “vera” fantascienza), cullato a lungo in attesa di una protagonista consenziente (Sandra Bullock in un ruolo fisicamente scomodo, girato stando “appesa” per ore) e dell’appropriata tecnica per restituire, in studio, l’assenza di gravità di astronauti fluttuanti nello spazio con, sullo sfondo, la Terra: è quest’ultimo, infine, l’elemento più sorprendente dell’opera, ottenuto dal regista e dal supervisore degli effetti speciali Tim Webber attraverso il Light Box, un cubo di 3 metri per 3, con schermi LCD per illuminare con immagini della Terra l’attore, ed una cinepresa robotizzata (l’automa Iris, inventato da Jeff Linnell) ad alta velocità che ha permesso agli amati piani sequenza di Cuarón di riprendere gli astronauti, con rotazioni su sei assi, volteggiando mentre volteggiano. Esteticamente, quest’armonioso “valzer”, con il nostro bellissimo pianeta fermo sullo sfondo, è una meraviglia. Una meticolosa ricerca di realismo, anche in soggettiva (per lo spettatore), che crea un’esperienza unica, soprattutto se fruita al cinema con il (vero) 3D, che amplifica le distanze siderali e la portata dei movimenti rotatori, gli oggetti nel vuoto ed i corpi umani in balia del Vuoto. Contribuiscono il montaggio sonoro fra sua assenza e tappeti elettronici e lo studio della fotografia di Emmanuel Lubezki, precisa nel riprodurre la luce nello spazio. Per ottenere tutto ciò, in pratica, l’80% della pellicola è animazione: sono stati ripresi solo i volti di Bullock e Clooney, tutto il resto è digitale. Cuarón, poi, aspira anche all’opera filosofica, ma le sue sono allegorie semplici e lineari (i detriti rappresentano le difficoltà da affrontare nella vita, dice il regista): va goduta come “thriller d’azione”, perché sapiente nel creare, in modo ansiogeno, un pericolo dietro l’altro e, ancor più, come dramma esistenziale sul dolore e la paura che annichilisce fino al suicidio e sulla capacità dell’uomo di rinascere e sopravvivere. Unico vero rammarico, alcune slabbrature sentimentalistiche nella seconda parte (con tanto di violini): non tanto la trovata dell’angelo-Clooney (il suo cognome, Kowalski, è un omaggio a Punto Zero), risolte in modo abbastanza credibile, quanto l’urlato melodramma attorno alla figlia della protagonista. Curiosità: la sceneggiatura è parto del figlio del regista e contiene un brano in cui Ryan colloquia con un tal Aningaaq, che è il titolo di un cortometraggio dal lui diretto, dove si può scoprire chi c’è dall’altra parte della “cornetta”.