
TRAMA
Gli anni di apprendistato di Philip Pirrip, detto Pip.
RECENSIONI
I vecchi (e i) giovani
Nuova versione per lo schermo (l’ennesima, tra grande e piccolo, l’ultimo adattamento cinematografico risalendo alla fine degli anni Novanta, una modesta rivisitazione in abiti contemporanei firmata Alfonso Cuarón) del classico di Charles Dickens, Grandi speranze riduce il racconto per immagini a un’elegante quanto vacua illustrazione del romanzo, che per esigenze legate alla durata canonica di due orette abbondanti viene ora sfrondato, ora maldestramente riassunto, ora sfogliato quasi di malagrazia, al punto che le scene che potrebbero/dovrebbero risultare di maggiore impatto (su tutte il fatale incidente di Miss Havisham e il fallito espatrio di Magwitch) risultano tediosamente grottesche quanto asettiche nella loro stringatezza. Nessun palpito proviene da una messinscena lustra e inamidata, che insiste fin troppo su simboli pleonastici (la gabbia sospesa nel vuoto) e riduce l’elemento gotico a stanca macchietta, vellicando l’anacronismo (il circolo dei ‘giovani gentiluomini’, antenato delle confraternite universitarie) ma rifiutandosi di spingere sino in fondo l’acceleratore del kitsch. Risulta paradossale, e amaramente ironico, che il sacro timore del testo di partenza venga applicato con tanta rigida inconcludenza a un’opera che ha come tema portante proprio quello dell’amore/odio tra padri e figli, che si inseguono a vicenda (ricorrendo spesso a figure vicarie, più o meno coscienti) e, quando finalmente si sfiorano, sono incapaci di rapportarsi gli uni agli altri, trovando solo nell’infelicità e nella morte un linguaggio comune, quasi il ricordo di un’esistenza condivisa.

Anche facendo finta che non esista la magnifica versione firmata da David Lean (o le altre sei), la sceneggiatura del romanziere David Nicholls (da lui definita noir, dark e violenta prima della fine delle riprese: non c’è traccia di tutto ciò) e la messinscena di Mike Newell (che opta per un finale aperto, diverso da Lean ma a metà strada con Dickens) non restituiscono la bellezza delle pagine dello scrittore per una serie di motivi, che vanno dalla scelta di un protagonista insulso, fatto recitare in modo oltremodo indisponente (doveva essere solo arrogante, con lezioni da apprendere), all’opinabile decisione stilistica di marcare gli ingredienti fiabeschi del racconto, quando nell’originale (e nel film di Lean) erano un “indotto” dove incastonare la potenza dei passaggi romantici. Ecco, invece, personaggi sopra le righe senza sfumature, dalla follia eccentrica di quello di Helena Bonham Carter alla bontà disarmante del fabbro, dalla strega cattiva della sorella adottiva alla simpatia disneyana dell’amico di Londra (Herbert Pocket) e del contabile. Il resto dei danni risiede nella drammaturgia: un fallace soppesare le scene e relativa atmosfera evocata, questione di dinamiche relazionali, di incastri per causa-effetto che non carrettano le potenzialità del romanzo, oppure falliscono per mancanza di solidità e credibilità. Ad esempio, è mal risolta la fondamentale complicità iniziale fra Pip e il galeotto, tanto che non si comprende il “colpo di scena” del ritorno di quest’ultimo. Il taglia-cuci dal romanzo, insomma, non funziona: il bellissimo racconto di formazione per un po’ marcia da solo, coadiuvato da buoni interpreti, da una ricostruzione storica (ma dov’è la soggettiva gotica dell’infanzia? Resta solo un filtro fiabesco) e una scelta delle location che mantengono in piedi lo spettacolo, ma non funzionano i colpi di scena dei segreti svelati, né la passione che dovrebbe tessere le fila della ragnatela. Qualche scena isolata va a segno, la maggior parte disperde la propria carica sentimentale. Rispetto a Lean, poi, non sono efficaci i j’accuse alle classi nobili, alle istituzioni barbare, al culto delle apparenze, per non parlare dell’impagabile galleria di personaggi risolta in macchiette.
