Drammatico, Recensione

GOOD

NazioneGran Bretagna, Germania
Anno Produzione2008
Durata96'

TRAMA

Il nazismo visto dagli occhi di un uomo qualunque che quasi senza volerlo si trova coinvolto negli orrori del Terzo Reich

RECENSIONI

La tragedia ridicola di un uomo ridicolo

L’intenzione di Amorim è forse quella di rappresentare il nazismo non all’interno di un affresco storico di grande portata, ma tramite una persona comune come John Halder, il protagonista del film; si vuole dire, cioè, cosa sia stata quella stagione drammatica per chi la percepì come il normale flusso delle cose. Intenzione ambiziosa. Purtroppo, però, al progetto non corrisponde lo sforzo necessario per portarlo a compimento e sembra di assistere alla brutta copia della Caduta degli dei; solo che se Visconti riusciva, con una ricerca formale (fotografica in particolare) ai limiti del virtuosismo, a rendere quel senso pesante di decadenza, quel graduale scivolare nella follia attraverso una ricostruzione che, pur non trascendendo mai i limiti di un gruppo di famiglia, poteva dirsi, per il suo respiro complesso, storica, coinvolgendo le ragioni sociali, economiche, psicologiche, Amorin si limita a costruire un personaggio, interpretato da un Mortensen mai così piatto, senza preoccuparsi di dare vita, anima, allo spazio/tempo che gli sta attorno, forse illudendosi che bastino qualche svastica, qualche divisa da SS, e un paio di ebrei perseguitati per raccontare un periodo. Il nazismo è lontano anni luce da questo film: non ci si rende conto che raccontare l’alienazione dalla Storia senza dare corpo alla Storia, non è possibile o è poco credibile. Anche sotto il piano estetico il film è insignificante: si vuole rappresentare l’orrore di quel momento, non percepito come tale, eppure non c’è nessuna scelta visiva che “significhi” questa percezione, attutita fino allo stravolgimento del reale: la regia è piatta, rigorosamente tecnica, perfino nel finale al campo di concentramento, quando l’orrore si svela pure al protagonista, non c’è nulla che permetta allo spettatore di essere partecipe. Manca, dunque, una visione critica della storia e ci si limita a dare corpo a un’intuizione, che resta allo stadio di abbozzo, appesantita, peraltro da incoerenze, come le riflessioni sull’eutanasia, e da momenti di cattivo gusto: tra questi spicca il finale, la trovata “fantastica” (nel senso di genere, certo non di apprezzamento personale) e senza nessun pudore (è lecito parlare in questo modo di una tragedia così immensa come è stata l’olocausto?) del quartetto d’archi tra i caseggiati squallidi di Auschwitz.