TRAMA
Due storie d’amore parallele: in entrambe, gli innamorati sono tormentati da ostacoli nascosti e ineluttabili, la forza della superstizione e le dinamiche del potere.
RECENSIONI
Si comincia oltre-confine. Il regista Jafar Panahi è seduto in un piccolo appartamento, relegato in una lingua di frontiera che separa l’Iran, suo paese d’origine e prigione politica pro tempore, dalla Turchia, terra all’interno della quale si è installato il set del suo nuovo film. Panahi dirige tutto a distanza, monitorando dallo schermo del proprio laptop le riprese effettuate dalla sua troupe in territorio turco: Gli orsi non esistono inizia proprio qui, con una panoramica circolare che disegna, in un piano-sequenza, il principio del racconto di una fuga che sembra impossibile. I due protagonisti del film da farsi, un uomo e una donna in attesa di ricevere un passaporto contraffatto che consenta loro di uscire dalla Turchia, decidono di incarnare nella finzione cinematografica del cineasta iraniano la propria disperata condizione di individui schiacciati dalla morsa di un potere spietato e onnipresente; Panahi, dal canto suo, si sforza, come i suoi “personaggi”, di non farsi piegare dalle circostanze avverse, e di oltrepassare per mezzo del gesto filmico ogni barriera di natura fisica, politica, religiosa e culturale. Ma andiamo con ordine: la vicenda de Gli orsi non esistono si dipana su due binari paralleli e complementari. Da un lato, abbiamo il film citato poc’anzi, la vera storia di Bakhtiar (Bakhtiar Panjeei) e Zara (Mina Kavani) che il cineasta iraniano sta mettendo in scena, adattando il proprio script al susseguirsi imprevedibile degli eventi che coinvolgono i protagonisti: Bakhtiar ha procurato a Zara un documento contraffatto che le consentirà di muoversi verso il continente, ma quando quest’ultima scopre che lui non potrà partire, si oppone alla fuga. Bakhtiar, che vuole innanzitutto che sia Zara a salvarsi, cerca di rimediare all’impasse facendo credere a tutti di aver organizzato un incontro con alcuni contrabbandieri; anche lui, sembra, avrà il suo passaporto, ma la troupe non potrà filmare la consegna di quest’ultimo, per evitare di esporre i volti dei criminali coinvolti. Il dubbio sulla veridicità di quanto dichiarato da Bakhtiar resta in sospeso per un po’, ma alla fine Zara scopre che si tratta di una menzogna, facendo precipitare tragicamente la situazione.
Sull’altro versante, lo spettatore osserva la vita di Panahi all’interno di un piccolo villaggio vicino al confine turco: mentre egli cerca di dirigere con difficoltà il suo film (la connessione web è debole, e solo l’aiuto regista ha rapporti diretti con lui), lo vediamo aprirsi positivamente al nuovo contesto di cui è ospite; ma la volontà di accumulare scorci, cerimonie, momenti di vita vissuta, entra presto in conflitto con codici e regole ancestrali che ne compromettono fin da subito l’operato. In particolare, sarà una fotografia presumibilmente scattata a una giovane coppia (altra tormentata storia d’amore), evento che resta al di là del confine del quadro, e quindi invisibile allo spettatore (esattamente come quello che, di là dal confine geografico, coinvolge Bakhtiar e i contrabbandieri), a mettere in crisi i rapporti con gli abitanti locali.
In mezzo a tutto questo si colloca, come è ovvio che sia, la vicenda personale, politica e giudiziaria del regista, il quale, con quest’opera, ribadisce con enorme forza il proprio rifiuto a subire passivamente la condanna che il regime gli ha inferto, e si dimostra risoluto, nella creazione come nella vita, nell’affermare e nel rivendicare ciò che ritiene giusto ponendosi in confronto/scontro con un contesto profondamente immobile e involuto (la scena del giuramento di fronte agli abitanti del villaggio, atto-performance che si pone in netta antitesi nei riguardi di un sistema di tradizioni che si fatica a comprendere, è un momento centrale nell’insieme dell’opera). Il processo di confronto dialettico condotto dal cineasta, aporetico eppure necessario, passa, come abbiamo visto, dal dialogo costante tra visibile e invisibile, tra ciò che il quadro contiene e ciò che si trova fuori dal perimetro dello schermo, tra interno ed esterno. In fondo, ciò che interessa a Panahi è interrogarsi sul concetto di limite, e sulla duplice forma attraverso cui esso si manifesta: la prima linea di demarcazione è quella, ovviamente, che segna il confine nazionale, confine che il cineasta sceglie deliberatamente di non oltrepassare per cercare, dall’interno, di riprogrammare, trasformare la realtà che lo circonda. La seconda, forse più importante, delimita ciò che si trova all’esterno, e assume rilievo nell’istante in cui Panahi sceglie di fotografare la coppia di innamorati nel villaggio. Da questo momento in poi, infatti, la tensione che sposta gli equilibri complessivi coinciderà con tutto ciò che nell’opera viene deliberatamente omesso, non mostrato, e allo scatto incriminato (è mai avvenuto? O Panahi lo ha forse arbitrariamente rimosso dalla scheda di memoria della fotocamera?) fanno eco gli episodi invisibili che si verificano sul set in Turchia: eventi non ripresi dalla troupe che restano fuori campo, verità nascoste, menzogne raccontate a fin di bene che, ovviamente, producono esiti tragici (è lo stesso Bakhtiar a dichiararlo apertamente: “ora che ho mentito, più niente andrà bene. La mia bugia l’ha distrutta. La mia bugia le ha fatto più male di tutti gli abusi subiti”).
La rimozione di un fatto, quindi, o l’impossibilità materiale di raccogliere le informazioni necessarie a rendere visibile, e coerente, il processo veritativo del racconto, ha sempre conseguenze imprevedibili e incontrollabili sul piano dell’esistente. In questo senso, appare evidente come il tentativo di restare fedeli e prossimi a quei soggetti che trasferiscono la propria vicenda personale nella finzione cinematografica, nonché alla propria integrità di essere umano, si sfaldi per mezzo di tutti quegli elementi che si trovano proprio al di là dei limiti del quadro, e gli effetti di questo processo ci riportano esattamente a quell’oltre-confine che segna il principio dell’opera.
Gli orsi non esistono, in sostanza, è quindi costruito sulla dicotomia tra ciò che si trova inscritto nel quadro e ciò che sconfina da esso, sulla predominanza del piano non-visibile (o, meglio, non-filmato) sopra la dimensione materica, su come le conseguenze della menzogna (o dell’omissione deliberata di un’azione) riverberino i propri imprevedibili e nefasti effetti sulle nostre vite.