TRAMA
RECENSIONI
Gli indifferenti (1929) - primo romanzo che Alberto Moravia, immobilizzato a letto per una malattia, scrisse tra i 17 e i 22 anni - sembrò esordio addirittura troppo folgorante e maturo perché il giovane autore potesse confermare il suo talento (infatti l’opera seconda, Le ambizioni sbagliate, ebbe tutt'altra accoglienza, salva la rivalutazione successiva): Leonardo Guerra Seragnoli, recuperando questo testo chiave della letteratura italiana novecentesca e rivisitandolo (anche con la coscienza acquisita dell’opera posteriore dell’autore e del conseguente percorso della sua poetica - dall’indifferenza, al conformismo, disprezzo, noia eccetera, i suoi romanzi hanno testimoniato puntualmente gli stati esistenziali degli uomini del suo tempo -), ne concepisce una messa in scena ambientata ai giorni nostri. Siamo ancora in un interno altoborghese dove si consuma, a porte chiuse, un dramma che vede protagonisti una vedova accecata dal suo egoismo e dall’ansia di trattenere l’amante Leo (un cinico uomo d’affari che vuole impadronirsi della casa) e i suoi due figli Michele e Carla, quest’ultima oggetto delle mire di Leo.
In un mondo senza principi, ciascuno dei personaggi sembra limitarsi a mettere in scena la propria parte: così anche la ribellione di Michele alle manovre di Leo è solo l’ombra di un atteggiamento che nasconde un’apatia profonda, testimoniata anche dall’inerzia con la quale il giovane scivola nella tresca con Lisa, un’amica della madre. In realtà ogni rapporto in gioco nasconde un lato oscuro: le false apparenze che li velano, favorendo fraintendimenti e sotterfugi, alimentano un balletto dell’ipocrisia, coordinato solo in apparenza. Se l’indifferenza dipinta nel romanzo venne letta come l’atteggiamento passivo di un ceto che permise il consolidamento del fascismo (il regime infatti osteggiò l’opera), riportata ai giorni nostri, è quella di una classe che riconosciamo incapace di far prevalere i valori umani, inconsapevole del presente, autoriferita, in costante crisi morale.
Seragnoli mi pare molto fedele al romanzo soprattutto nella neutralità di uno sguardo che, non giudicando, prende asetticamente atto della situazione: quello rappresentato è un gruppo di famiglia in un interno in cui la crudeltà domina serena, senza sussulti. Nella rappresentazione di questo marcio teatro borghese - in cui non c’è un protagonista perché lo è tutto il milieu messo in scena - il regista guarda non solo a Visconti (e quindi, in secondo grado al Guadagnino di Io sono l’amore), ma anche a certo Bertolucci e, ça va sans dire, Antonioni. Modelli alti ché l’obiettivo mi pare essere proprio riportare un certo tipo di prospettiva nel nostro cinema, quel rendere visibili i meccanismi impercettibili che presiedono alla costruzione dell'identità, quel puntare allo stile per tradurre in immagini lo scarto tra sentimenti, parole, atti.
Ovviamente inevitabile termine di paragone è il notevole film che Citto Maselli trasse dal romanzo nel 1964 e a cui questo adattamento sembra guardare, anche solo per distanziarsene: innanzitutto nella scelta degli attori assai giovani che impersonano i figli (Claudia Cardinale e Tomas Milian all’epoca avevano rispettivamente 26 e 27 anni), che, al di là delle età dichiarate nei due film (i 18 anni di Carla, contro i 24 della novella), sembra scelta volta a sottolineare ancor di più (e aggiungerei: efficacemente) il ruolo manipolatorio e sottilmente perverso delle tre figure adulte. Dall'altra parte se il film di Maselli risultava più ambiguo ed ellittico, Seragnoli propendendo per una scrittura più esplicita, svela i dietro le quinte e, glissando sulla morbosità quasi incestuosa del rapporto tra sorella e fratello, pigia sul registro straniante della recitazione. Soprattutto, in linea con i tempi, si inventa un finale diverso in cui Carla, rovesciando la logica immobilista, fa intravedere, nella reazione autenticamente sentita, una possibilità di cambiamento.
Terzo tassello di una filmografia in interessante divenire, stimolante, non omologata.