Drammatico, Recensione

GLI EQUILIBRISTI

TRAMA

Per aver tradito la moglie, Giulio, impiegato comunale e padre amorevole, lascia la casa in direzione di una discesa impietosa nella miseria.

RECENSIONI

Colonna vertebrale del cinema italiano, il melodramma familiare è in preda ad una crisi di identità dalla quale fatica a trovare pace. La fiction televisiva e il cinema medio-autoriale (Comencini, Luchetti e Ozpetek su tutti) si sono appropriati dei moduli del genere e ne hanno imposto una normalizzazione coatta: l’eccesso si decolora in un pallido kitsch, il pahtos sbanda a mezza via tra patetismo ed isteria, la struttura narrativa si adagia su un’inaspettata classicità, il sensazionalismo risulta non pervenuto. Ad un certo punto ci si dovrà interrogare se ha ancora un senso ricorrere a tale categoria. Nel frattempo non nuoce rispolverare la teoria femminista che, nel consueto andirivieni tra genre e gender, vuole il desiderio della donna – sempre negato, represso o umiliato – a fare da motore e da nucleo del genere: in questa prospettiva la famiglia, ossia lo spazio di formazione del desiderio (prima edipico, poi normale o perverso), diventa un osservatorio privilegiato dei mutamenti in corso. Sempre nella normalizzazione in atto, infatti, si assiste ad uno spostamento delle tensioni interne verso l’esterno, puntando al più sulle ambiguità della frontiera. Così, mentre il cinema degli anni della contestazione, per esempio, si focalizzava in un interno talmente pressurizzato da implodere – in uno sfogo coevo Visconti liquida il tutto come «monotonia di letti, di stanze da bagno, di indumenti, di anatomia circoscritta ai sistemi escretori e riproduttivi» –, oggi la struttura narrativa più ordinaria, cioè tradimento-penitenza-riconciliazione, mette in scena non più l’impossibilità disperata del desiderio ma la sua denegazione di principio attraverso un percorso di redenzione. E se il desiderio svanisce, la famiglia non è certo messa meglio. Mi pare dunque che la principale ragione di interesse de Gli equilibristi – e forse persino la sola – consista proprio nel partecipare alla riarticolazione del melodramma familiare in forma piuttosto originale. Prima però è il caso di sgomberare il campo da un certo equivoco su cui il discorso della critica si è arenato. La vicenda di Giulio, marito fedifrago dissanguato dalle conseguenze del divorzio, è stata letta volentieri perlopiù in chiave sociale, come avallato pure dalle dichiarazioni del regista («Ho usato la separazione come inizio della storia, ma poteva essere qualunque cosa, una malattia o la perdita del lavoro: lo scopo era raccontare l’equilibrismo economico che ci troviamo a vivere, la ricchezza fittizia della nostra società»). Il drammone di denuncia rimesta tutti gli ingredienti in uno scenario di crisi economica e sociale ben noto: il lavoro nero, la povertà, il multiculturalismo che si realizza soltanto nelle fasce estreme della società – e su questo specifico tema il cinema italiano lavora da alcuni anni con profitto –, l’inesistenza di un welfare state, l’emarginazione e così via. Il tracollo di Giulio, incarnato da un Mastrandrea che è monumento di afflizione, è una narrazione a tal punto presente nella vita quotidiana dello spettatore da aver fatto scomodare il termine «neorealismo» in maniera, come sempre, del tutto ingiustificata: la tanto declamata analogia con Umberto D è appena una flebile assonanza tematica (il protagonista raschia il fondo del barile), non maggiore di quella che lega Pinocchio all’Odissea (il protagonista vorrebbe tornare a casa). Come dramma sociale, insomma, il film non centra alcun obiettivo dal momento che non si preoccupa di volgere lo sguardo ai meccanismi soggiacenti alla crisi per concentrarsi invece sulle dirette conseguenze; esemplari in questo senso le scene che hanno per soggetto il denaro, la cui essenza è problematizzata solamente nella misura in cui esso viene a mancare, quasi che l’essere interfaccia tra soggetto e mondo gli fosse connaturato. In altri termini, il dramma sociale che non vuole essere anche politico è una lamentazione sullo stato delle cose, sia pure sincera ed accorata finché si vuole.

Che la crisi della famiglia si rispecchi nella crisi identitaria del protagonista - non abbastanza «uomo» da saper provvedere ai suoi, lo accusa un amico - lo si intuisce già dalla prima sequenza dopo i titoli, una ripresa dall'alto della moglie che esce per andare a lavorare che si scopre essere, per mezzo di uno dei pochi movimenti di macchina sobri, una soggettiva dell'uomo che guarda dalla finestra, figura quest'ultima legata convenzionalmente all'iconografia della donna-madre-moglie. Il personaggio di Giulio è frutto di una negoziazione tra caratteri «virili» (l'orgoglio, l'ostinazione) e non (la docilità, l'impotenza, la fragilità), il cui squilibrio tende gradualmente verso il secondo polo via via che le sue condizioni di sopravvivenza si aggravano. A questa progressione se ne affianca un'altra, di natura spaziale: dall'interno privato (la casa) all'esterno pubblico (la strada) per via di spazi intermedi solo provvisori (la camera di un amico, la pensione, l'auto). Il requisito della definizione di Giulio come soggetto (uomo-padre-marito) è l'ambiente domestico, ovvero lo spazio della famiglia, quello dal quale ha abdicato e al quale tende a ritornare: tutto ciò che gli è esterno appare adulterato. Come? Con una scelta registica iperbolica. Ivano De Matteo inventa un congegno di messa in scena sul quale vale la pena di soffermarsi diffusamente prima di lanciare l’anatema di formalismo.
Intanto, quasi mai il quadro è centrato, men che meno simmetrico, e già questo basterebbe a rendere percepibile il tema della dislocazione. Ovviamente si va molto oltre e lo si fa per mezzo di tre stratagemmi orditi: a) la profondità di campo ridotta, b) le cornici e c) il rumore visivo.
a) il gioco del fuori-fuoco aggancia senza libertà alcuna lo sguardo dello spettatore al soggetto designato, il resto disperdendosi in una pozza informe di colori;
b) il soggetto è letteralmente inquadrato dalla scenografia così da suggerire una sensazione di oppressione, di soffocamento;
c) oggetti indefinibili occupano temporaneamente il campo a stretta vicinanza con l’obiettivo, risultando così delle macchie passeggere che inquinano il quadro (e quando si tratta di persone, ossia di silhouette, l’effetto assomiglia comicamente a quello delle riprese piratate in sala in cui gli spettatori prendono posto a film iniziato).

Il dispositivo è attivo quasi indefessamente per tutta la durata del film, smorzato a volte da necessità di grammatica (nel campo/controcampo, per esempio), altre da necessità di narrazione (ovviamente nei momenti domestico-familiari). Infine, e qui torna il melodramma, il dispositivo insinua quei caratteri del genere – l’eccesso e il pathos, il manicheismo in forma simbolica – che sul piano narrativo non si articolano in uno sviluppo convincente. L’angoscia ingenerata dalle vicende di un uomo senza via di uscita trova il proprio controcanto in una immagine disturbata, forzata e cieca, per non dire della leziosissima musica, anch’essa pervasiva. Il risultato ha una connotazione centripeta ben precisa: la famiglia come unico orizzonte di salvezza, una verità rispetto alla quale cade in disgrazia tutto il contorno di denuncia sociale, che, è bene notarlo, non trova nella messa in scena una traduzione con altrettante premure e si rivela in fin dei conti l’aspetto più fragile del film. In un melodramma in cui il desiderio non spetta più alla donna ma, anzi, viene considerato merce di scambio dell’uomo per il ritorno tra le mura domestiche, le dinamiche spettatoriali di seduzione ed identificazione si afflosciano in una resistenza, tutto sommato facile, ai mezzucci strappalacrime che di tanto in tanto si intravedono tra le pieghe del film.