Documentario, Recensione, Sala

GIGI LA LEGGE

NazioneItalia, Francia, Belgio
Anno Produzione2022
Durata102'
Sceneggiatura
Montaggio
Scenografia

TRAMA

Le giornate di Gigi, vigile urbano di provincia sonnolenta, in bilico tra pattugliamenti di routine in solitaria o in coppia e indagini personali sul suicidio di una ragazza; tra corteggiamenti via radio a una collega e pensieri che scivolano via; tra i gradi che separano il giardino-giungla e l’auto di servizio; tra il reale il fantastico.

RECENSIONI

Un documentario poliziesco che si trascina nei rivoli dell’incanto e dell’assurdo, della memoria dei luoghi famigliari e dei racconti da qui scaturiti, dell’indistinto plastico di verità e finzione. Del resto, per Alessandro Comodin, viene da pensare, le immagini non hanno mai vita propria, ma ne hanno sempre, almeno, una doppia, tripla, e così a salire. Non rispondono mai solo a sé stesse, né a un mandante preciso. Si situano e si muovono, si perdono e si compongono, nello spazio che intercettano, che scoprono, che le scopre. Non c’è fulcro nel cinema di questo regista, non c’è aderenza, non c’è una narrazione-madre, sembra esserci piuttosto la fertile e permeabile  dicotomia della relazione e della compresenza di segni, di indizi sfuggenti, fuori significato,  cardini fragili di un tempo ulteriore, un extra-racconto. D’altronde, come sottolinea Daniele Dottorini, studioso tra i più stimolanti di cinema del reale, non esiste «una regola, una forma che attesti cosa debba essere il documentario. Ogni forma è possibile, ma perché? Scriveva Marie-José Mondzain, filosofa delle immagini che ha spesso lavorato sul documentario, che l’oggetto del documentario non è ciò che si riprende, ciò che si racconta, ma la relazione che si crea tra chi filma, chi è filmato e chi guarda questo rapporto farsi concreto nelle immagini in movimento di un film. Non la cosa o i corpi ma ciò che si crea tra la cosa e i corpi». Ecco, basterebbe anche solo l’inizio di Gigi la legge (Premio Speciale della Giuria al Festival di Locarno 2022)un giardino che sembra uno spazio sconfinato, una giungla, luogo di alberi e pianti fuori misura, enormi, ingombranti; luogo che ostacola la visione e  teatro di  un dialogo prolungato e senza senso forse con un vicino, forse con i fantasmi, forse con il proprio delirio, in una scena notturna che sembra provenire da un sogno, dal cinema, dal fantastico per capire di cosa stiamo parlando. Comodin, qui, in questo territorio altro, in questa dimensione alterata, sembra sintetizzare e negare allo stesso tempo, in una continuità discordante, le sue opere precedenti. L’estate di Giacomo e I tempi felici verranno presto  rinascono e muoiono dentro Gigi la Legge, in questo cinema senza legge che dal cinema fugge. Il giardino è quello dell’infanzia del regista, del gioco, era di sua nonna, oggi appartiene a suo zio Pier Luigi Mecchia, “Gigi”, vigile urbano in una zona di campagna, in un micromondo di storie e non-storie tra San Vito al Tagliamento e dintorni.

Racconta Comodin ad Arnaud Hée: «Nel luglio del 2017, durante il servizio, Gigi ritrova il corpo smembrato di una donna che si è buttata sotto un treno. Diversi treni sono passati su questo povero corpo senza che nessuno se ne accorgesse. È proprio in quel momento che mi sono ricordato che nella calma piatta della pianura, succede almeno una volta l’anno che una persona del paese decide di suicidarsi buttandosi sotto un treno, proprio all’altezza del passaggio a livello dietro al cimitero. Nello stesso posto in cui ho perso un amico quando ero adolescente». Comodin riallaccia sottilmente i fili e dà una nuova possibilità a Gigi, e lo fa preferendo la divagazione al piglio affabulatorio, così da far girare a vuoto il poliziesco, perfino il senso, come se ci fosse sempre qualcos’altro, in realtà da afferrare, da decifrare, da ricomporre, da affermare momentaneamente e poi da riazzerare in una mappatura dell’istante più che dell’insieme, in un disegno compositivo dolcemente e disordinatamente illusionista. Il non-finito, il provvisorio, la trasparenza inesatta sostanziano l’esistenza del protagonista, sospesa sul proprio destino, nutrono il movimento di Gigi, la forma stessa del film. Un’opera “su misura”, dunque, che significa arrotondare per difetto la realtà e procedere per circolarità inesistenti, precisioni mancate, drammaturgie introflesse. Anche l’amore, qui, o meglio il corteggiamento simpaticamente pigro, parentetico e frivolo per un’affascinante collega, voce vicina e lontana e infine figura, è un’invenzione, una soluzione che non appartiene alla realtà ma alle verità plurime, quindi tronche, di Gigi e del film; è una finzione, una funzione, una fuga, il discorso indiretto dell’opera illuminato dall’Amore disperato di Nada. E Gigi, volto, corpo e lingua da caratterista di commedia sfrangiata e quieta di provincia, è invece protagonista del mistero, sembra abitarlo distrattamente, ne varca transitoriamente i limiti… Ma in fondo è l’unico luogo che sembra davvero assomigliarli, che sembra davvero accoglierlo.