Drammatico, Sala

GENERAZIONE ROMANTICA

Titolo OriginaleFēngliú yīdài
NazioneCina
Anno Produzione2024
Durata111'
Sceneggiatura

TRAMA

Datong, 2001. Qiao Qiao parte alla ricerca del suo ragazzo Bin, che ha lasciato lei e la città per cercar fortuna altrove. Nel far ciò, attraverserà oltre vent’anni di storia e cambiamenti culturali in Cina.

RECENSIONI

Come già successe qualche anno fa per I figli del fiume giallo, Jia Zhang-Ke si tuffa, in Generazione romantica, in una archeologia del suo cinema. Tre parti. La prima, databile grossomodo tra 2001 e 2002, risale all’epoca dell’esplosione del boom cinese, culminato con l’assegnazione a Pechino della prossima sede olimpica. Materiale proveniente dal suo Unknown Pleasures (2002) convive con altro materiale, sempre più o meno di quei mesi, che Jia ha girato per altri progetti o che comunque non fu incluso in quel film. La seconda, 2005-2006, contiene materiale girato dalle parti delle Tre Gole, vicino allo Yangtze, per il suo Still Life (2006); anche qui, qualche scena da quel film coesiste con scene, sempre girate in quello stesso periodo, che in quel film non ci sono. La terza, ambientata nel 2022 (e l’unica girata ex novo per questo film, composto per il resto da footage girato anni prima), è un ritorno alla Datong della prima parte (dopo un breve detour aereo a Zhuhai), segnato dalla vulnerabilità del corpo a contatto con la malattia, ma anche (e tutt’altro che irrelatamente) da un apparato visivo di sorveglianza che si fa onnipresente (le immagini di Jia qui e là mimano le immagini che, dal satellite, possiamo vedere via google di qualunque luogo). Trait d’union di tutte e tre, una coppia che si sfalda sempre più, interpretata dalla solita Zhao Tao (musa di Jia da venticinque anni) e da Zhubin Li, che vediamo invecchiare lungo vent’anni.
La Cina di questa terza parte è una Cina post-Covid che ha completato ed esaurito l’arco del suo prodigioso sviluppo. La sua potentissima base industriale vede affiancarsi un’economia sempre più immateriale: i soldi, constata lo sconsolato protagonista, un tempo pragmatico imprenditore di discreto successo, oggi si fanno con Tik Tok, anche se nessuno capisce bene come. La Cina, insomma, è entrata in quella dimensione che Guy Debord chiamava Spettacolo: a trainare l’economia “pesante”, industriale e materiale, c’è l’immateriale, perché è su quest’ultimo che si impernia lo scambio. Persino la tecnologia, con l’Intelligenza Artificiale, si sbilancia bruscamente dal lato dell’immateriale.

Il gesto archeologico decisivo, e assai acuto, di Jia in Generazione romantica è quello di ricordare che questo “ingresso” non è, in realtà, che un ingresso dove si è sempre stati, l’entrata in un luogo che non si è mai abbandonato. Lo Spettacolo, infatti, domina con tutta evidenza anche la prima parte del film: il grosso della parte proveniente dal 2001-2002 consiste infatti in celebrazioni improvvisate per strada, esibizioni canore nei tinelli di casa, serate in discoteca, e più in generale penetrazioni dello Spettacolo nella vita quotidiana che non hanno certo aspettato Tik Tok per manifestarsi.
La fine è già qui, eppure le andiamo incontro lo stesso. Questa, in sostanza, la temporalità dei film di Jia già dai tempi di Platform (2000), storia dell’apertura della Cina al capitalismo colta nel momento del suo nascere ma con la malinconia di sentirsi già alla fine perché il percorso che le si parava innanzi era già nitidamente tracciato. Coerentemente, Generazione romantica prende atto che sì, in effetti, è andata esattamente come doveva andare e come si è sempre saputo dovesse andare, ma aggiungendo la malinconia del sentirsi “in sovrappiù” rispetto a questo processo. Coerentemente, la temporalità adottata da questa collezione di frammenti riemersi dal passato e verticalizzati a posteriori in una netta chiusura narrativa è duplice: da un lato, ogni frammento tende verso il loro risolversi narrativo, ma dall’altro esibiscono una assoluta, evidentissima autonomia. Ogni pezzo del puzzle (non di rado di carattere spiccatamente, orizzontalmente descrittivo degli ambienti in cui ha luogo l’azione, grazie agli inconfondibilmente insinuanti movimenti della cinepresa di Jia) contribuisce alla figura finale, ma è anche un pezzo a sé stante, indipendente, una totalità in sé.
Questa interdipendenza tra la linea retta narrativa e il singolo punto che le appartiene viene spinta talmente lontano che Jia non si limita a prendere immagini del passato e a cucirle insieme: ne manipola anche la tessitura visiva, fra le altre cose per smussare le discrepanze tra il digitale di due decenni fa e quello di oggi. A tal fine utilizza persino l’intelligenza artificiale, peraltro esplicitamente tematizzata nel film: prima che un robot compaia per aiutare la protagonista (e chissà, forse più avanti soppiantarla nel suo ruolo di cassiera?) nel terzo segmento, nel secondo le macchine vengono magnificate dalla propaganda perché non proverebbero tristezza. Forse perché la tecnologia e la Storia sono tutt’uno; a noi, che le attraversiamo senza mai coincidere con loro, non rimane che constatare che il presente si spacca a ogni istante (una sua faccia continua, l’altra si cristallizza nella memoria in entità indipendente), e che dunque possiamo già anticipare, con la malinconia di chi non può non sapere tutto in anticipo, che anche il presente che ci sta davanti, come nello straziante finale del film, si spaccherà in due. E questa spaccatura ha valenze sociali su cui Jia non ci concede il lusso di rimanere ciechi, incentrando su di esse le ultime inquadrature di un film dove il progresso coesiste, anche visivamente, con imperiture sacche di arretratezza: se il tempo (dunque la Storia) si spacca in ogni istante, una parte di noi scorrerà con lui, l’altra rimarrà ferma.