TRAMA
1977. Tre anni dopo il Watergate, Nixon ha la possibilità di autoassolversi di fronte al popolo americano, ricostruendo la sua immagine in un’intervista televisiva. Frost, colui che lo intervisterà, è invece intenzionato a dare a Nixon quel processo a cui è sempre sfuggito.
RECENSIONI
[...] Se con 'aura' intendiamo, con Walter Benjamin, l'unica apparizione di una lontananza, l'aura del Principe nell'era della riproducibilità tecnica soffre tanto quanto quella dell'opera d'arte[...] (Regis Debray, Lo stato seduttore. Le rivoluzioni mediologiche del potere )
Morgan e la TV
Il lavoro di Peter Morgan (The queen, L'ultimo Re di Scozia, L'altra donna del re) si concentra essenzialmente sulla rappresentazione del potere, innestando elementi finzionali che si insinuino nei meandri della Storia per illuminarne i retroscena, mirando a sondare contemporaneamente i due corpi del re[1], il corpo profano (quello del re) e il corpo sacro (quello del Re), il corpo mortale e quello immortale, il corpo dell'uomo e il corpo del potere. Autore (anche) televisivo, fa sì che i suoi drammi colgano e trasformino in narrazione uno dei processi che l'esposizione televisiva dei corpi ha contribuito a creare, il collasso tra sfera pubblica e privata in un limbo che si ciba contemporaneamente di palcoscenico e dietro le quinte[2), di rappresentazioni di sé spesso divergenti, (in)conciliate di fronte alle telecamere. Per questo Frost/Nixon- già pièce di successo in Gran Bretagna prima e a Broadway poi-, facendo del mezzo televisivo il territorio del duello, il luogo votato all'osmosi massima tra le scene- tra i diversi ruoli, tra le sfaccettate apparenze dietro cui si cela vago l'essere- rappresenta una sorta di approdo, l'omaggio di Morgan al medium in cui si cristallizza fisiologicamente il suo modo di pensare il potere.
Nixon, o del Re decaduto
Le interviste televisive, fulcro di Frost/Nixon, rivelano due opposte intenzioni, entrambe legate al corpo del Re decaduto, Nixon: l'ansia di definitiva desacralizzazione[3] da parte di Frost, il tentativo di medicalizzazione da parte di Nixon medesimo. Ovvio dunque che a sostenere quest'obiettivo vi siano armi retoriche e di (auto)rappresentazione in continuo movimento, strategie comunicative bieche quanto raffinate, depistaggi dialettici, contrattazione perpetua tra storia e contingenze, necessità e ideali, crudeli giochi fondati sulla bivalenza del contesto (Nixon chiede all'avversario, un attimo prima dell'inizio della registrazione: 'Ha avuto modo di fornicare, ieri sera?'. La conversazione, sul gong che separa l'informalità dello scambio dall'accendersi del synopticon televisivo è un colpo destabilizzante per Frost). Di fronte ad ogni discorso, che sia interno o esterno al ring TV poco importa, il sospetto o l'evidenza della costruzione coglie personaggi e spettatore, permea di ambiguità situazioni e protagonisti, nell'attesa, vana, che si riveli un'impossibile autenticità. Ron Howard, con stile piano, e anonimo, scosso solo da qualche slancio seventies, fotografa, dichiarandosi consapevole[4], questo proliferare di ponderate apparenze lasciando si sedimentino in superficie, manifeste solo nella mutua recita dei protagonisti.
La telefonata
La telefonata di Nixon, (apparentemente) ebbro, all'abbattuto Frost, nel cuore della notte, pare effettivamente fuori tono, rispetto al resto del film: l'ex-presidente sciorina i suoi istinti più profondi, rivela la sua anima, si dona già desacralizzato, piccolo, sconfitto (lui che aveva sfuggito ogni condanna) a un nemico sino a quel momento inerme di fronte alla sua superiorità dialettica. Il testo pare sbracare nel concedere il monologo denso di pathos al meraviglioso Langella, concedendogli una resa insensata e dolente, lo squarcio accomodante nel velo della menzogna. Ma. Se il personaggio di Frost, con il comportamento seguente, apre dilemmi inquietanti sull'approssimazione scambiata per complessità dei tratti che sino a quel momento l'avevano caratterizzato ('perché non scavare più a fondo prima?' è una domanda tanto stupida quanto impossibile da non porsi), gli interrogativi di fronte all'incongruente gesto di Nixon paiono più fertili, anche se non sostenuti da una regia la cui piattezza pare inadeguata a fronte dell'esponenziale stratificazione del testo: se aprendosi alla possibilità della sconfitta Nixon cerchi nella pubblica condanna il paradosso di una medicalizzazione? Se Dick l'imbroglione avesse finalmente capito (insieme e più di Frost[5] come strumentalizzare il processo semplificatore della TV? Se il suo volto addolorato, imbarazzato, vinto dalle domande di Frost e ripreso impietosamente dalla TV rappresentasse un frame in cui riassumere, insieme ad una sconfitta da sempre nell'aria, anche la possibilità di una pietà di fronte ad un corpo reale inesorabilmente decaduto e regalato al popolo?
Il finale
Qualche parola sul momento migliore dell'intero film: in chiusura i due contendenti si danno l'addio e, dietro la patina del rituale, l'accumulo dei segni sottratti al contesto dello scontro diviene ancor più sfuggente, ogni gesto, oggetto, parola sprofonda in un'ambiguità impenetrabile, devastante. Che significano quelle scarpe? Cortesia, educato sarcasmo, compassione? O tutti e tre contemporaneamente? Nixon ha davvero dimenticato la sua telefonata? E guida e gioca a golf perché liberato dal suo ruolo? O perché, semplicemente, recita il suo cambiamento? Rimangono i dubbi, le sembianze instabili di una sconfitta che potrebbe significare redenzione, una vittoria che sotto i fasti sente aprirsi l'increspatura del compromesso, l'alone di una paradossale strumentalizzazione machiavellica. Eppure la sobria ed inelegante confezione di Howard pare subire la sceneggiatura di Morgan, la sua impersonalità pare annichilire la potenza elusiva, deliberatamente enigmatica del testo. Come se le considerazioni qui sopra fossero frutto più del ricordo del film che sua diretta filiazione.
[1] Cfr. Ernst Kantorowicz, I due corpi del re
[2] 'Rivelando gli spazi da retroscena ai vari tipi di pubblico, la televisione ha avuto una funzione demistificante; ha provocato il declino dell'immagine e del prestigio dei leader politici, ha ridimensionato gli adulti agli occhi dei bambini e ha ridimensionato reciprocamente uomini e donne' (Joshua Meyrowitz, alla faccia del determinismo tecnologico, Oltre il senso del luogo)
[3] Come era successo durante i dibattiti televisivi in occasione delle elezioni presidenziali del 1960: 'Adesso i giornali dicono che Nixon ha guadagnato negli ultimi due dibattiti mentre è andato male nel primo. Il professor McLuhan pensa che Nixon sia parso sempre più preciso, ma che, indipendentemente dal valore delle opinioni e dei suoi principi, li abbia difesi con troppa retorica, tenuto conto delle esigenze del medium. Kennedy ha anch'egli sbagliato dando risposte troppo secche, ma la sua immagine è tutto sommato più vicina, secondo il professor McLuhan, a quella dell'eroe televisivo, a qualcosa come il giovane sceriffo timido- mentre Nixon, con i suoi occhi scurissimi che tende a sbarrare e le sue tortuose circonluzioni, assomiglia di più all'avvocato della ferrovia che firma contratti non corrispondenti agli interessi degli abitanti della cittadina' (Marshall McLuhan, riportando un articolo che cita il suo pensiero, Gli strumenti del comunicare. Mass media e società moderna). Ciò non impedirà a Nixon, con la più grande resurrezione dai tempi di Lazzaro di divenire Presidente, nel 1969.
[4] Nell'incipit i personaggi vengono entrambi presentati di fronte alle telecamere della TV. E' un'introduzione, come dire, sintomatica.
[5] Lo sguardo di Frost, dalla finestra, verso Nixon che accarezza un bassotto, pare interrogarsi sul comportamento dell'avversario, più che dimostrare compassione.
Il presentatore e il presidente. Un semplice e sostituibile ingranaggio nel sistema dell’ entertainment televisivo anglosassone e l’uomo che ha minato alle fondamenta la fiducia americana nelle istituzioni governative. Lo scontro è servito in una sessione di quattro interviste, con massaggiatori-consiglieri agli angoli del ring, colpi scorretti e risorse dell’ultimo round. E forse le analogie con un match pugilistico sono fin troppo sottolineate. Al cinema di Howard (medio quando non mediocre) ho sempre riconosciuto comunque la solidità nella costruzione dello spettacolo: senso del racconto e ancor maggiore senso del ritmo, senza fronzoli. Un pregio che gli consente di rendere appetibile una vicenda come quella dell’incontro, confronto e tenzone tra David Frost e Richard Nixon (vicenda della quale prima di questo film non ero per nulla a conoscenza e sul cui effettivo valore politico mi interrogo) anche alla zia Mariella, che di storia americana recente non conosce granché. Non è poco. In più lo sguardo di Ron Howard per la prima volta viene attraversato da una salutare vena ambigua. E il merito di quest’ambiguità è probabilmente da ascrivere principalmente alla penna acuta di Peter Morgan, sceneggiatore e drammaturgo che sia al cinema che in teatro, come ha già esaurientemente spiegato Sangiorgio, sembra essere particolarmente attratto dallo studio delle figure di potere e della loro rappresentazione mediatica. Frost/Nixon però non riesce a colpire duro fino in fondo come potrebbe. Il primo piano cinematografico di Howard restituisce sì a Nixon ciò che il primo piano televisivo ha tolto, l’umanità (e la compassione), ma al tempo stesso sembra anche redimerlo con troppa facilità. Lo scontro termina con un vincitore ma con nessuna vera sconfitta: Nixon (un grande Langella ma Michael Sheen non gli è da meno) ne esce con l’onore delle armi e con il dubbio che sia stato più che altro vittima di un modus operandi generalizzato (sia suo che dei suoi avversari) che non ha saputo utilizzare al meglio. Mentre della rivalsa di Frost alla fine si sottolinea di più l’aspetto di riscatto in qualche modo morale (sentirsi all’altezza della progressista sete di giustizia dei suoi collaboratori giornalisti) che non il suo côté di ambizione e cinismo più o meno venale. Ad ogni modo. Film sul potere in Tv e sul potere della Tv, si è giustamente detto. E particolarmente interessante mi è sembrato notare come il potere mediatico venga tradotto dal mondo politico in appetibilità sessuale (il che spiegherebbe in parte anche la presenza altrimenti pleonastica del personaggio impersonato dall’avvenente Rebecca Hall). Nixon, la cui moglie sofferente ha più un’aura sororale che altro, invidia a Frost il suo successo in campo femminile, così come invidiava il sex appeal di JFK. L’antiestetico sudore sul suo labbro superiore lo ha condannato alla sconfitta contro la telegenia arrapante di Kennedy più di tanti discorsi, pare. Ed è sul piano sessuale che Nixon cerca di affondare più sottilmente il colpo contro Frost, l’accenno spiazzante alla fornicazione un attimo prima della messa in onda e l’allusione all’effeminatezza delle scarpe italiane senza lacci. Calzature che gli ritorneranno implacabilmente indietro, regalo cortese di Frost che forse non si rende neanche pienamente conto della beffarda e letale ambiguità del gesto. Il re è stato definitivamente evirato.