TRAMA
Franny, affascinante e ricchissimo, ha fatto della beneficenza il suo scopo nella vita. Un segreto, però, gli impedisce di trovare un equilibrio. Cerca di raggiungerlo aiutando Olivia, figlia dei suoi più cari amici morti in un incidente automobilistico.
RECENSIONI
Richard Gere è star planetaria e può permettersi di non inseguire il botteghino interpretando solo i film in cui crede. Probabilmente, colpito da un copione dai contenuti intimisti e sfumati che lo vede in scena dal primo all’ultimo fotogramma, ha deciso di sostenere il debutto registico nel lungometraggio di Andrew Renzi, giovane autore di corti e di un documentario sulla vita in un ranch del Montana (Fishtail). Purtroppo le mille variabili intercorse tra l’idea (non così irresistibile, va detto) e il suo sviluppo devono avere avuto qualche intoppo creativo, perché hanno finito per amalgamarsi nel peggiore dei modi. Ciò che è dato vedere sullo schermo, infatti, si prolunga monocorde e prevedibile senza smuovere la benché minima emozione. Le coordinate del racconto girano intorno a un uomo, un miliardario filantropo, con un grande senso di colpa in cerca di espiazione. Pur senza volerlo, infatti, ha causato una distrazione fatale che ha determinato la morte dei suoi due migliori amici, genitori di una ragazza che lui tratta come una figlia. Il dolore interiore prende consistenza fisica attraverso la dipendenza dalla morfina a cui si è ormai assuefatto, dopo un uso sconsiderato facilitato dalle sue infinite possibilità economiche. La via crucis della trasfigurazione impone un one man show che non risparmia allo spettatore nessuna opzione: altruismo esagerato nei confronti del prossimo, amore smodato, ossessivo e invadente verso la ragazza orfana, autolesionismo, isolamento, poca cura di sé, misantropia, eccessi, sballo, e quindi sfuriate, urla e tante, tantissime, scene madri.
Tutto pare concorrere al bisogno di esternare, buttare fuori la propria sofferenza, per impedire che i non detti si incancreniscano, e dopo varie resistenze una consapevolezza risolutiva, sollecitata da una nuova vita che affiora, suggerisce la speranza di un finale lieto. A sancire la rinascita l’ennesimo gesto simbolico, con un “e vissero felici e sbarbati” che parrebbe mettere a tacere tutti i demoni interiori. Il tocco minimale della regia cerca di valorizzare l’ambientazione autunnale, perfetto contraltare a violini e pianoforte della colonna sonora, e di scavare nelle pieghe di un quotidiano diventato insopportabile. Il percorso di redenzione, però, mal si combina con le iperboli a cui cede il protagonista. Pare che il dolore, per essere tale, debba per forza diventare tangibile e tradursi in gesti e azione. In questo senso Gere si butta anima e corpo nel progetto, abbandonandosi a derive che finiscono, però, per sortire un effetto stereotipato. Non aiuta l’assenza di veri contrasti. Della figlioccia e di ciò che le passa per la testa non sappiamo praticamente nulla e di suo marito è dato constatare solo la tutela del nido familiare e della propria autonomia decisionale. Ma ciò che affossa il film è l’assenza di mistero. Quello che è accaduto al protagonista è noto già dopo pochi minuti e il fatto che il film impieghi un’ora e mezza per farlo trapelare aiuta più che altro il personaggio. Quanto agli aspetti più oscuri (il tipo di rapporto intrattenuto con gli amici morti, le origini di tanta ricchezza materiale, i reali bisogni del protagonista al di là del tanto smaniare), vengono bellamente ignorati.