TRAMA
Uno scienziato del 2031, attraverso alcuni esperimenti, crea una breccia temporale e si ritrova nella Ginevra del 1817, dove Frankenstein ha dato vita alla sua creatura e Byron è stato esiliato per “depravazione”.
RECENSIONI
Dopo vent’anni in cui si era esclusivamente dedicato alla produzione, Roger Corman torna a dirigere e lo fa nel suo umile stile da B-movie, per nulla impettito da critiche e riscoperte lusinghiere nei suoi confronti. Inizia con una vena semi-trash e da exploitation affrontando per la prima volta il mito di Frankenstein, nonostante sia diventato famoso soprattutto per il genere horror. Parte da lontano, un futuristico 2031 dalle scenografie povere, stile fantascienza anni cinquanta/sessanta, con viaggi nel tempo da Ritorno al Futuro e con l’ironia (anche imbarazzante) della macchina-robot stile Supercar. La parte centrale, invece, lo riporta alle sue messinscene ambientate nel secolo precedente e tratte da Edgar Allan Poe, con maggior uso, però, degli esterni o di ambienti naturali (il laboratorio del dottor Frankenstein è una chiesa sconsacrata di Milano e molti tecnici nostrani hanno partecipato alla pellicola). Comincia a farsi strada, poi, l’intrigante motivo che pone in parallelo lo scienziato, emblema del progresso tecnologico, e il dottor Frankenstein, creatore di abomini viventi. Il testo bizzarro, tratto dal romanzo “Frankenstein liberato” di Brian Aldiss, pesca anche lord Byron e i coniugi Shelley (uno dei quali è Michael Hutchence, cantante degli Inxs). In questa fase, la sceneggiatura (cui ha contribuito lo stesso Corman) è migliore della messinscena. Chiude il tutto uno scenario apocalittico ed un finale delirante fra raggi laser, facendo alzare di non poco le quotazioni del film. Lode anche al fatto che, finalmente, la creatura di Frankenstein è disegnata come temibile e feroce (splatter immancabile) ma, non per questo, meno umana e degna di pietà: la maschera alla Cabal con capello lungo inventata al trucco per l’esordiente Nick Brimble è davvero indovinata.