Drammatico, Sala

FORTUNATA

TRAMA

Roma. È una parrucchiera abusiva ma presto le cose cambieranno; si chiama Fortunata ma finora non lo è stata. È giovane, ha una figlia, cerca la pace, l’amore: la felicità.

RECENSIONI

Il regista la definisce una «favola di periferia». La coatta presa a sberle dalla vita (e dal marito dal quale si è separata) ma che continua a plasmare d’oro il suo cuore che batte per la figlia (mentre i soldi, quelli veri, servono per la svolta, per il sogno da anni coltivato: aprire un locale di acconciature tutto suo e smetterla finalmente di girare tra le strade e le case della gente). L’amico che fa tatuaggi, buono anche lui e fragile, bipolare e per di più con madre mangiata dall’Alzheimer e da ciò che resta dei lontani fasti teatrali. L’ipotesi di un nuovo sentimento con lo psicologo genovese trapiantato a Roma. Le terrazze e le ragazze sboccate; le suore di colore; i capelli delle spose grasse che piangono; i cinesi che ballano in un rito quotidiano sotto casa: la Periferia capitolina scritta da Margaret Mazzantini e messa in scena da Sergio Castellitto. Il loro parossistico neorealismo degli affetti e dei dolori elevato a stile, sorta di costante effetto speciale, rappresentazione che dopa figure e immaginario, i luoghi, i dialoghi, le esistenze. L’umana galleria di vite tronche e infelici, i padri morti, i traumi schiacciati illusoriamente, il sesso come precaria liberazione; la tragedia greca a sollevare il racconto dal solo presente, ad assolutizzare il tempo, dunque l’Antigone a nutrire il melodramma popolare; il Vivere di Vasco Rossi a incorniciare, come fosse didascalia in note, come ulteriore plusvalore estetico ed emozionale, il ritratto collettivo e i definitivi conti col passato della protagonista. Un’attrice intelligente e capace, sensuale, Jasmine Trinca, come riproduzione aggiornatadi Anna Magnani (i ciclici, rassicuranti “nannarellismi” del cinema italiano sono duri a morire).
«Fortunata», dichiara Castellitto nelle note di regia, «è un aggettivo qualificativo femminile singolare. Ma è anche il nome di una donna. E soprattutto un destino. E non è detto che quel destino uno se lo meriti. Ci sono uomini in questa storia che non sono d'accordo sulla felicità di Fortunata». E gli fa eco Jasmine Trinca   – da un’intervista per “Io Donna” pochi giorni prima di Cannes (che l’ha poi incoronata come miglior interprete di Un Certain Regard –: «Non sono ancora pronta per mollare Fortunata, un po’ me la tengo anche nel modo di parlare. Questo biondo lo devi proprio interpretare, non è miele, non è morbido». C’è da crederle, non sfigura affatto, e anche stavolta – come già successo in passato – sa fare della sua bellezza un corpo drammaturgico a sé, che corrobora tangenzialmente la recitazione. Il punto critico, invece, è che Castellitto regista e Mazzantini, capaci di dare al cinema anche opere apprezzabili come Libero Burro e La bellezza del somaro, in questo loro sesto film non si contengono: banalmente intensificano – senza sosta, senza una vera esigenza che possa farsi “occhio” e “voce” sulle cose – la narrazione. La “realtà” e la «favola» amara a Torpignattara che la contiene diventano un reality delle emozioni, gioco facile e didascalico di simmetrie e di antipodi, di morti, fallimenti, riappropriazioni e rinascite. E così, tutto è semplificato: l’ambiguità arida del personaggio borghese di Stefano Accorsi e la disperazione di quello interpretato da Alessandro Borghi (quasi delle versioni apocrife e rivisitate di loro ruoli precedenti come, rispettivamente, nella Vita facile di Lucio Pellegrini e in Non essere cattivo di Claudio Caligari), gli sputi di una figlia contesa (Nicole Centanni), l’Alzheimer di Mamma Schygulla, la violenza e la debolezza di un marito/guardia giurata Edoardo Pesce, l’infanzia e i suoi fantasmi non sono il film, ma la sua tesi, il suo messaggio, la sua confezione migliore. Ma pur sempre un pacco.