TRAMA
Kyle Pratt e sua figlia sono in volo da Berlino a New York. A 11.000 metri di quota, mentre Kyle si addormenta, la piccola Julia scompare. Nessuno dell’equipaggio o dei passeggeri dice di averla vista salire a bordo e della bambina non sembra esserci traccia. Delirio di una donna disturbata o complotto?
RECENSIONI
A poca distanza dal debole Red eye arriva un altro thriller ambientato tra i cieli ugualmente incapace di portare a buon fine un soggetto accattivante. Anche in questo caso è l'idea la forza del film e non è difficile immaginare un gruppo di produttori pensosi e sfiduciati ritrovare la speranza quando una voce butta lì un "che ne dite di una donna che si addormenta in aereo accanto alla figlioletta e al risveglio non riesce più a trovarla?". In effetti la pensata, pur nella limitata originalità (Hitchcock docet), non è male. Peccato che il subitaneo interrogativo "ma come giustificare tutto ciò?" sia messo vilmente a tacere da una confezione accurata e dal reclutamento di una star come Jodie Foster, approfittando del solido mestiere di un regista tedesco (Robert Schwentke) in cerca della grande occasione oltreoceano. Senza dimenticare, ovviamente, il potere del marketing, capace di suscitare le domande giuste e di congelarne le risposte. Ancora una volta è la sceneggiatura il punto debole del progetto. Crea premesse interessanti, costruisce personaggi dolenti in cui sarebbe bello credere, punta il dito con indubbia efficacia su paure universali e di presa immediata (dell'altro, di noi stessi, dell'ignoto), ma alla resa dei conti si accontenta dell'ennesima donna sola contro tutti costretta ad arrabbiarsi per trovare giustizia. In questo senso il percorso della protagonista non è molto dissimile da quello della stessa Jodie Foster in "Panic Room": luogo angusto, figlioletta in pericolo, abilità ginnica, volontà di ferro e lucidità impensabile. Schwentke non si abbandona ai virtuosismi come David Fincher, ma trova comunque soluzioni registiche degne di nota. Merito anche della colonna sonora di James Horner, incisiva proprio perché non invadente, e del montaggio di Thom Noble, davvero brillante nell'incoraggiare l'atmosfera onirica della prima parte sottolineando lo stretto confine tra realtà e sogno in cui potrebbe essersi persa la protagonista. A inquinare la tensione, invece, il solito gigantismo americano con abuso di superlativi (un aereo grandissimo, una donna intelligentissima e coraggiosissima, dei compagni di viaggio ottusissimi, un piano bislacchissimo), pensando che per attirare il pubblico tutto, ma proprio tutto (nonsense incluso), debba necessariamente essere "bigger than life". Anche la scenografia, nonostante la cura per il dettaglio, non riesce sempre ad essere realistica e comunica in più di un'occasione la sensazione di essere all'interno di un teatro di posa piuttosto che su un aereo in volo, soprattutto quando l'azione si sposta dalla zona passeggeri ai tanti pertugi della carlinga. Ma il perno del film è lei, Jodie Foster, spigolosa come sempre e come sempre dotata di un grande spessore interpretativo. In parte anche Sean Bean, che ha la faccia giusta per insinuare il sospetto, e pure Peter Sarsgaard, monocorde ma adatto. Greta Scacchi si affaccia invece rapidamente e con duttilità in uno dei ruoli peggiori della sua carriera.
Inutile aggiungere, come per "Red eye", la necessità di un cinema che oltre ad attirare gli spettatori sia anche in grado di mandarli a casa soddisfatti. Cosa che per quest'anno, ad alta quota, non accade.
Regista tedesco, produzione hollywoodiana, star americana, boiata colossale. E ancora, uffa, Hitchcock, essendo il Leitmotiv narrativo di Flightplan una fotocopia di quello de La signora scompare. Non che Schwentke non ci provi, per carità, ma le evidenti buone intenzioni naufragano nel mare del movimento di macchina mutuato (il Fincher mobilissimo e sinuoso di Panic Room, altro referente lapalissiano) ma spesso immotivato e della sceneggiatura a orologeria con gli ingranaggi inceppati. Perché, diciamolo, gli incastri creati da Dowling e Ray sono ridicoli - rectius - non ci sono, mentre i plot holes, specie nella mezzora finale, sono innumerevoli e davvero pesanti. I motivi di interesse del filmetto cessano così di esistere dopo pochi minuti, il tempo di accennare un 'ardito' montaggio alternato che (con)fonde realtà e immaginazione, poi basta. Perché se l'(*unica*) idea di insinuare il dubbio nello spettatore, di fargli condividere la condizione percettiva-cognitiva della protagonista era anche valida, lo sviluppo e la risoluzione sono banalissimi, in fortissimo odore di filmtv (prima serata Italia1 o Rai2, ci siamo capiti insomma). La Foster fa quello che può, Sean Bean (il migliore del lotto) ostenta stoica professionalità mentre Peter Sarsgaard, che per almeno due terzi di pellicola avrebbe dovuto sprizzare ambiguità da tutti i pori, opta invece per la paresi facciale.