Biografico, Drammatico, Recensione

FIRST MAN

Titolo OriginaleFirst Man
NazioneU.S.A.
Anno Produzione2018
Durata141'
Sceneggiatura
Liberamente trattodalla biografia First Man: The Life of Neil A. Armstrong di James R. Hansen
Fotografia
Montaggio
Scenografia

TRAMA

La missione della NASA per portare un uomo sulla Luna gli anni tra il 1961 e il 1969: i sacrifici e il costo, per Neil Armstrong e per l’intera nazione, di una delle missioni più pericolose della Storia.

RECENSIONI

SULLA LUNA, L'UOMO

Del titolo, se rileva il First, ancora più importante è quel Man. Perché il film di Chazelle - se inquadra storicamente la conquista della luna, un’impresa di cui la Nazione tutta si fa bella - insiste, come nei due precedenti, sulla sfida che il protagonista ingaggia con se stesso. È un discorso personale, intimo, quello messo in scena dall’americano, tanto che gli avvenimenti, quel puntiglioso scandire la successione temporale che caratterizzò la corsa al satellite, la gara con i russi, le varie missioni scrupolosamente riportate in didascalia, costituiscono il semplice sfondo al percorso di un individuo. Come dire che a Chazelle, più del grande passo compiuto dall’umanità, interessa il piccolo passo compiuto dall’uomo, un uomo che è da solo fin dalla sequenza in cui fronteggia l’avaria della navicella: il vibrante incipit dice subito del pericolo che il protagonista accetta quando prova a spostare in avanti i suoi limiti (e che segna la visione, come lo faceva l’inizio di La La Land). Neil Armstrong astronauta è solo, dunque. Non meno del Neil Armstrong marito e padre, chiuso nella sua capsula interiore dopo la morte della figlioletta; che è il trauma che ribalta il senso della missione («Potrà avere qualche effetto?» «Credo che sarebbe irragionevole presumere che non avrà alcun effetto»), una ferita nascosta a tutti (anche alla moglie: l’amica le chiede se il marito le parla della figlia morta, «No, mai»), come nascosto e solitario è il suo pianto disperato. Ed è solo alla Casa Bianca quando rappresenta quella squadra che intanto va a morire, chiuso in una cortina quasi autistica che la consorte si impegna a scalfire per ricondurlo alla normale quotidianità, alla vita familiare, a un dialogo coi figli che diventa imperativo alla vigilia della partenza per la missione lunare.

Chazelle rende il carattere minimo della vita personale di Armstrong (le dinamiche familiari, i dialoghi coi colleghi) con la macchina da presa che si muove scomposta, come in un filmino fatto in casa, con la grana in evidenza. Per questo tutta la tecnologia mostrata nel film non è mai idealizzata, anzi: è prosaica (e realisticamente datata, dunque ingombrante), fallibile, temeraria. Per questo nella carlinga l’attenzione si concentra su una mosca: è un piccolo particolare, una minuzia che ci distoglie dalla grandiosità del progetto, ci riporta alla casualità dello sguardo umano del protagonista - che il film decide di privilegiare -, rispetto a quello storicistico, oggettivo ed esterno sull’astronave che si stacca dal suolo. Per questo il confronto decisivo è quello che avviene tra il protagonista e i figli, e non quello con i vertici della NASA. Anche quando sembra che l’epica si faccia largo (il decollo, il dispiegarsi orchestrale del tema di Justin Hurwitz, fino a quel momento intelligentemente frenato, sottotraccia), si ha a che fare con la premessa altisonante all’apoteosi romantica del discorso chazelliano: l’allunaggio, il contatto del piede col suolo non sono dell’eroe, ma dell’Uomo da solo al traguardo, di Neil che nel silenzio totale si confronta con se stesso e col suo dolore consegnando il ricordo della figlia (e il senso della sua impresa) al cratere lunare. Non è solo il momento più riuscito del film, è anche quello in cui il suo significato si sintetizza e la visione umanistica della cronaca, il suo risvolto sentimentale, trovano la loro compiuta espressione: il ricordo privato, il trauma che ha creato la distanza col mondo, l’elaborazione del lutto sono in primo piano rispetto alla dimensione storica dell’avvenimento. Per questo si evita l’immagine-monumento della bandiera americana piantata al suolo e si prediligono i flashback-filmini che rappresentano i momenti di felicità vissuti dalla famiglia Armstrong prima del lutto.
E quel vetro della quarantena che separa marito e moglie è l’ultimo metaforico ostacolo prima del ricongiungimento, il cesello del melodramma interiorizzato. Per questo il film si chiude su quell’immagine, non c’è altro da aggiungere: è quella la sfida vinta (la Luna come l’Ade da raggiungere per salutare per l’ultima volta l’ombra di una figlia che non c’è più; l’ottenuta serena rassegnazione; il ritorno alla vita), è quello il trionfo da celebrare.
L’autore costruisce con grande rigore registico questo percorso, in un film che ha scrittura raffinata, un’ottima tenuta narrativa e che sa prendersi i suoi tempi. Che trasmette un naturale senso di prossimità al personaggio e che molto deve alle prestazioni degli attori (ottimo Gosling, superba Foy).
Rimane il dubbio che a Chazelle certa critica faccia le pulci solo perché è un giovane regista premiato e dalle idee chiare, il che (Dolan docet) dà sempre un po' fastidio. Anche (soprattutto?) di fronte a un’opera lucida e matura come questa.