La serie racconta dell’accesa rivalità professionale e personale tra Joan Crawford e Bette Davis a partire dalle riprese di Che fine ha fatto Baby Jane?
Tra le principali novità in materia di produzione televisiva americana c’è il modello antologico stagionale, che nell’ultimo decennio è arrivato con prepotenza e si è affermato come una delle alternative più interessanti dal punto di vista produttivo. Se True Detective, Fargo e The Night Of (su questa c’è un punto interrogativo visto il non ancora ufficializzato rinnovo) hanno portato una ventata di innovazione al noir seriale in televisione è anche per questo nuovo modello narrativo che negli ultimi anni si sta imponendo con sempre maggior piglio. Alla base di tale fenomeno c’è una figura con un nome e un cognome, una delle personalità più incisive della televisione americana: Ryan Murphy. Nel 2011 esordisce infatti la sua American Horror Story – attualmente alla settima stagione – serie che ambisce a essere un’antologia sull’horror americano facendo di ogni annata una sorta di miniserie a tema con personaggi e plot autonomi (con qualche eccezione). Inoltre negli ultimi anni Murphy ha prodotto prima Scream Queens, brillante comedy ultra citazionista di stampo teen-horror e poi American Crime Story, drama antologico iniziato l’anno scorso con una stagione incentrata sul processo a O. J. Simpson e che proseguirà con una seconda dedicata alle vicende legate all’uragano Katrina e una terza tutta sulla morte di Gianni Versace.
Feud è tra le punte di diamante del parco novità del ricchissimo 2017 e porta ancora una volta la firma di Ryan Murphy, produttore e showrunner oltre che sceneggiatore e regista di alcuni episodi. Il progetto complessivo è quello di fare un’antologia di storie di grandi faide (intese in senso esteso) tra personaggi celebri e si sa già che la prossima stagione ruoterà attorno alla rivalità tra Diana Spencer e Carlo d’Inghilterra. La prima stagione racconta il travagliato rapporto tra Joan Crawford e Bette Davis, prendendo come baricentro narrativo la realizzazione di Che fine ha fatto Baby Jane? di Robert Aldrich del 1962.
Il modello antologico si presta perfettamente a questo tipo di storia per tre ragioni fondamentali che emergono tutte in maniera palese nel corso degli otto episodi di Feud. Innanzitutto questo modus operandi consente di creare delle miniserie evento capaci di concentrare in poco tempo un’importante quantità d’attenzione mediatica, dando così ai produttori la possibilità di promuovere la serie come un’occasione unica e non replicabile; in secondo luogo non va sottovalutato il potere contrattuale di questi show, soprattutto per quanto riguarda la maggiore facilità ad attrarre registi, sceneggiatori e soprattutto interpreti di grande fama grazie a contratti limitati dal punto di vista temporale; infine vi è il rapporto dialettico tra l’indipendenza delle singole annate e i raccordi di tipo concettuale che le legano e caratterizzano il progetto.
Feud approfitta di tutte e tre queste possibilità già a partire dalla scelta del film attorno cui far ruotare l’intero racconto: quella di Aldrich infatti è un’opera con un solidissimo fandom, l’occasione per realizzare performance attoriali indimenticabili ma anche il simbolo di un modo di intendere il cinema, alternativo alle logiche tradizionali. Ovviamente un’operazione del genere impone anche un discorso sul divismo hollywoodiano a proposito del quale risulta assolutamente azzeccata la scelta delle due interpreti femminili: Jessica Lange (nel ruolo di Joan Crawford) e Susan Sarandon (in quello di Bette Davis). A partire da queste due attrici e da una storia narrativamente così suggestiva, Ryan Murphy ha la possibilità di focalizzarsi sui temi a lui più cari come la condizione delle minoranze, il sessismo (a vari livelli), la misoginia, il rapporto tra persona e personaggio e quello tra icona e media di massa. Che fine ha fatto Baby Jane? è l’occasione perfetta per portare avanti discorsi del genere su più fronti anche perché contiene gran parte delle caratteristiche che oggi distinguono la serialità contemporanea, incluse le serie prodotte da Murphy. Il film di Aldrich infatti ha insegnato al mondo che negli Stati Uniti si può parlare di invecchiamento, condizione femminile e di rivalità tra due star anche attraverso il genere, percorrendo i binari del grottesco e dell’horror. Una lezione oggi più urgente che mai, che serie come Inside No. 9, Search Party o le murphyane Scream Queens e American Horror Story dimostrano di aver imparato a menadito.
Feud si presenta come il laboratorio principale nel quale discutere di queste tematiche, le quali sono ormai costantemente affrontate dalla cosiddetta TV di qualità; lo fa mettendo al centro del discorso le sue donne, con i loro corpi e le loro difficili condizioni di vita, non solo dal punto di vista professionale. Raccontare Bette e Joan oggi vuol dire anche dare una sorta di riscatto alle due dive dalla Hollywood Classica, omaggiandole sullo schermo e in questo modo certificando il cambio di paradigma liberatorio che consente a due attrici ultrasessantenni come Jessica Lange e Susan Sarandon di essere le protagoniste assolute della serie. Bette and Joan (questo il sottotitolo della prima stagione della serie) è la celebrazione definitiva di quest’inversione di tendenza, non solo perché le interpreti sono abbondantemente over cinquanta, ma anche perché costituiscono la ragione principale del successo della serie, come già dimostrato, tra l’altro, da uno show come Grace and Frankie.
Nel ritratto chiaroscurale di Murphy, Joan Crawford è una donna estremamente fragile e al contempo dall’inossidabile orgoglio; un’attrice di talento e ancora popolarissima ma messa in gabbia da un’anagrafe che le chiude sempre di più le porte dal punto di vista professionale. Mettendo per un attimo da parte la somiglianza fisica, non è un caso che Murphy abbia scelto proprio Jessica Lange per questo ruolo, la sua musa in tante stagioni di American Horror Story e ideale per innescare l’intero racconto di Feud. Il suo corpo si presta alla perfezione per questa storia, specie perché l’attrice è stata un’icona di bellezza della Nuova Hollywood, ma a differenza della Crawford invece che vivere la vecchiaia come la pietra tombale sulla propria carriera ha trovato in televisione l’occasione di essere una star come forse non era mai stata. La sua interpretazione rende magistralmente la difficoltà abissale di Joan Crawford, costellata dai complessi di inferiorità nutriti nei confronti di Bette Davis, dal rifugio nell’alcol e da un atteggiamento che alterna in maniera quasi schizofrenica un atteggiamento di resa autodistruttiva con la grinta e l’orgoglio che le permettono più di una volta di rialzarsi.
_x000D_Bette Davis è il suo esatto contrario, una donna priva dell’innata bellezza della sua rivale, ma a cui da sempre è stato riconosciuto un eccezionale talento interpretativo, tanto da renderle meno traumatico l’invecchiamento fisico. Anche per questo il personaggio incarnato da Susan Sarandon è una donna sicura di sé, meno vittima dello sguardo altrui e molto più capace della rivale di affrontare il mondo a testa alta, consapevole che non riceverà solo giudizi sul proprio aspetto esteriore. Tuttavia non è un mondo semplice neanche per la Davis, che per costruirsi questo personaggio ha dovuto forgiare una corazza infrangibile, diventando una maniaca del lavoro e finendo per trascurare i propri affetti, in particolare la figlia B. D. (interpretata dalla ex Sally Draper Kiernan Shipka), la quale le rinfaccerà fino all’ultimo il suo egoismo, definendola come una pazza dispotica.
Nonostante il traino della serie sia soprattutto legato ai due personaggi principali e alle attrici quasi sempre al centro della scena, la faida in questione rappresenta per gli autori qualcosa di molto più stratificato di una rivalità tra due dive hollywoodiane. La serie è infatti impostata su più livelli temporali, tra cui si distingue una cornice successiva agli eventi principali in cui alcuni colleghi delle due attrici vengono intervistati e tra questi già dal pilot c’è Olivia De Havilland (Catherine Zeta Jones) che per evitare qualsiasi misunderstanding afferma “Feuds are never about hate. Feuds are about pain”. In fondo, dall’inizio alla fine, la serie non fa che ribadirci questo concetto, sottolineando la perfetta relazione tra l’ostilità reciproca di Joan Crawford e Bette Davis e il dolore che entrambe provano a seguito del maschilismo e della misoginia del mondo in cui sono immerse.
Questo non significa ovviamente che le due attrici si volessero bene, ma Murphy fa chiaramente capire quanto quella rivalità sia stata da una parte una macchina da soldi alimentata da altri a piacimento, dall’altra una scialuppa di salvataggio per loro stesse, rappresentando in molti momenti l’unica strada per non essere fatte fuori da Hollywood. Si prenda per esempio il personaggio di Hedda Hopper, peso massimo della carta stampata di costume e in quegli anni, in controllo dell’immagine delle star agli occhi dell’opinione pubblica. La donna (interpretata in maniera sofisticata da Judy Davis) un po’ come il Toshirô Mifune di La sfida del samurai o il Clint Eastwood di Per per un pugno di dollari, mette benzina sul fuoco della rivalità tra le due attrici ricattandole alternativamente, promettendo alla miglior offerente di distruggere l’immagine dell’altra.
Che fine ha fatto Baby Jane? rappresenta per entrambe la chance della vita, l’occasione per un rilancio quasi impossibile, l’unica via per tentare l’ardua impresa di dimostrare a Hollywood che attrici over cinquanta possono ancora avere una vendibilità per il grande pubblico e aiutare il film a ricevere riconoscimenti importanti. Feud, pur mettendo in scena con dovizia di particolari il successo del film di Aldrich (Alfred Molina), ribadisce quanto l’industria cinematografica dell’epoca fosse spietata con le attrici non più giovanissime e grazie al personaggio di Jack Warner (Stanley Tucci) fa emergere quanto, nonostante una carriera eccezionale, le due dive siano a Hollywood come dinosauri in un mondo che ormai vuole soprattutto le Marilyn Monroe e le Anne Bancroft.
Feud – Bette and Joan è una struggente storia sulla solitudine, sulla condizione femminile nella Hollywood degli anni Sessanta, realizzata con una cura maniacale per la ricostruzione storica che vede il suo momento apicale nel quinto episodio, in cui Ryan Murphy (in quel caso anche regista) mette in scena alla perfezione la cerimonia degli Oscar del 1963, coprendo il davanti e dietro le quinte con dovizia di particolari e unificandoli con uno stupendo piano sequenza che ricorda molto da vicino quello celeberrimo di Quei bravi ragazzi.
Nel corso degli otto episodi non si può che essere contagiati dall’affetto con cui gli autori descrivono due donne mai davvero considerate nella loro totalità, ma sempre ricondotte a degli stereotipi dalle caratteristiche ingabbianti: l’una riconosciuta quasi esclusivamente per il suo aspetto estetico, l’altra invece che pur dotata di enorme talento ha sempre sofferto il non essere abbastanza bella per gli standard richiesti all’epoca. Un concetto espresso alla perfezione nel settimo episodio in cui, nel più intenso dei loro faccia a faccia, alle domande “How did it feel to be the most beautiful girl in the world?” e “How did it feel to be the most talented girl in the world?” entrambe rispondono che è stato bellissimo ma non è stato mai sufficiente, rimarcando ancora una volta la parzialità con cui sono state da sempre, ciascuna a suo modo, giudicate.
A mettere la ciliegina su una serie davvero eccezionale c’è un finale che per non chiudersi nel dramma sfuma nel sogno, optando per un what if ormai classico, che dal cinema alla TV sta dimostrando tutta la sua efficacia. Se ben gestita, come nei casi di La 25ᵃ ora, Mommy, La La Land e 13 Reasons Why, questa soluzione diventa uno splendido omaggio alla storia raccontata fino a quel momento e nel caso di Feud al contempo discolpa e celebra due donne e due personaggi eccezionali a cui Ryan Murphy non ha mai smesso, dall’inizio alla fine, di volere bene.