Drammatico, Sala, Streaming

FAVOLACCE

TRAMA

Spinaceto, periferia sud di Roma. Un gruppo di famiglie, genitori e figli, villette a schiera, l’estate torrida. La vita apparente, la volgarità, la disperazione, l’orrore, la morte.

RECENSIONI

Esattamente dove si colloca Favolacce? A Spinaceto, è lo stesso film a precisarlo. Anche se declinassimo sul piano temporale la domanda, verrebbe facile rispondere: tutto lascerebbe ricondurre al nostro presente. Lo scenario è un ambiente di vita chiuso e protetto, un enclave in cui un io narrante, neutrale rispetto ai fatti ma non del tutto estraneo, tenta goffamente di colmare le lacune che emergono dalle pagine del diario di una bambina trovato fortuitamente: «non resto colpito dai fatti in se, ma dalla sensazione di misteriosa reticenza che mi provocano, come se non tutto fosse effettivamente su carta eppure presente con pesantezza». Una diagnosi che ispira subito inquietudine, che ci lascia in attesa della rasoiata di una sfumatura, ponendoci con sospetto di fronte ai fatti, così da cogliere ogni crepa nella diga che contiene quel mondo apparentemente cartesiano che cela, forse, segreti orrorifici.
E segnali perturbanti affiorano immediatamente: più che le piccole e quotidiane meschinità a disorientare sono le reazioni dei personaggi: quelle degli adulti, sempre esasperate rispetto alle situazioni, come se fossero affetti da disturbo bipolare; di segno opposto, ma altrettanto indecifrabili i comportamenti dei ragazzini, che sembrano incapaci di comprendere l’utilità dei sentimenti e osservano quanto accade con freddezza, quasi siano assoggettati all’imperante deriva anaffettiva che che corrode tutti. Su ognuno grava un senso di colpa, concetto che non è da leggersi in senso cristiano: non è una chiave per capire il male, non è l’ostacolo che ciascuno deve affrontare e superare per forgiare la propria personalità. È piuttosto una dimensione antropologica diffusa, una funzione sociale che può transitare da un individuo all’altro in modo tutto sommato indifferente.

Quello abitato da queste persone è un mondo che appare costretto definitivamente a morire, a estinguersi, proprio come accade in Il villaggio dei dannati. Tanto il film di Rilla Wolf, quanto il remake di John Carpenter intrattengono con Favolacce più di una somiglianza (la caratterizzazione, anche da un punto di vista fisico, dei giovani adolescenti, così come quella sensazione sospesa, atmosferica, insinuante, ottenuta lasciando gravitare la forma del racconto fra l’attesa e lo scoppio di violenza, che crea progressivamente un senso di oppressione) e offrono un utile termine di confronto per rispondere alla domanda posta all’inizio. La torsione a cui i fratelli D’Innocenzo sottopongono la realtà assume i contorni di un thriller fantascientifico, ciò a cui danno forma è una “fantascienza del presente” da intendersi in chiave ballardiana: colgono, quelle che nella percezione comune sono ancora solo metafore, o impressioni, o tendenze e tentano di renderle letterali, e perciò esplicite, innervate nella struttura narrativa, una narrazione sempre in bilico tra la verità di chi scrive e la verità del reale (a dircelo, fin da subito, è quel narratore ignoto già prima incontrato: «Quanto segue è ispirato a una storia vera. La storia vera è ispirata a una storia falsa. La storia falsa non è molto ispirata»). Questa scelta dà modo ai registi di trovare una forma attraverso la quale raccontare l’indicibile, l’orrore secco, il fascino mostruoso e rinnovato della morte e infatti l’ipotesi della fine è presente quasi sempre, o è latente, è l’ombra e l’anima della storia. Per rispondere, quindi, all’interrogativo iniziale, Favolacce si colloca un po’ più in là di ciò che intendiamo come realtà.

Ogni favola è un gioco, le Favolacce no. La terra dell'abbastanza era un limbo. «Beh Spinaceto… pensavo peggio. Non è per niente male…» diceva Nanni Moretti su vespa in Caro Diario quasi trent'anni fa; oggi invece Damiano e Fabio, i fratelli D'Innocenzo, che scrivono e dirigono, ne fanno un inferno a cielo aperto da cui piovono favolacce, un horror arthouse di orchi ignoranti, violenti e debolissimi, infantili, di bambini-adolescenti disadattati che preparano bombe, figli a cui tagliare i capelli perché forse hanno preso i pidocchi per colpa dei vicini, figli col morbillo da passare ad altri, ragazzini che escogitano la loro prima volta d'amore senza sognarla. Tra il frinire ipnotico delle cicale in una lunga estate calda e i compiti per le vacanze, i compleanni, le cene in giardino, un insegnante ambiguo e manipolatore, una ragazza che mette al mondo una vita senza averne una propria.

Max Tortora, oramai attore meritoriamente, perfettamente dinnocenziano, era volto, era padre nella Terra dell'abbastanza; qui invece può essere solo verbo, voce narrante, perché non c'è più spazio per i genitori più inadatti che colpevoli come il Danilo di quel film. Tortora introduce al mondo delle favolacce, ne racconta gli snodi, un mondo che cromaticamente, stilisticamente, convoca più epoche, più cinema, come ha fatto recentemente per altre vie, con anarchico rigore, con sbilenca lucidità, il Martin Eden di Pietro Marcello. Nell'ultimo film dei D'Innocenzo la vita, questa piccola vita, in cui – parafrasando proditoriamente De Gregori – la periferia è bella anche se fa male, malissimo, perché non è più criminale, sottoproletaria, tragica, ma culturalmente ed emotivamente analfabeta, non più sospesa ma terminale, questa vita – dicevamo – è, a lungo,  brutta sporca e cattiva senza esserlo davvero, con una luce e una sorta di indefinitezza interrogativa quasi malickiane a dissimulare gli effetti, perché le cause ci sono, ci sono state, ma non c'è bisogno di spiegarle. Gli effetti prima o poi esplodono. È un mondo in realtà hanekiano, e la sensazione è che la lotta al realismo in questo luogo parallelo e reale costruito dai registi, in questo favolismo sinistro, rovesciato, già di Garrone e già noto ai D'Innocenzo (che hanno collaborato alla sceneggiatura di Dogman), sia determinismo prima di essere, poi, invenzione.

Perché Favolacce (Orso d'argento per la migliore sceneggiatura a Berlino 2020) è questione di penetrazione, di droplet, per usare un termine che abbiamo imparato a conoscere. Loro, i fratelli D'Innocenzo, aprono il film con nuvole che s'addensano, inizia a piovere. Ed è come se tutta la  prima parte  fosse questo: umidificazione, umettamento senza corpo,  senza soggetto, un oggetto visto dall'alto, da lontano. La sequenza del soffocamento del bambino (la migliore insieme a quella opposta, intima, finalmente vicina che culmina nel portentoso primo piano di Elio Germano verso il finale) è emblematica. Le goccioline dell'acqua dei bambini che si inseguono nei loro giochi d'estate e che mettono, di fatto sotto vetro, in vitro, il nostro sguardo, ne sono un altro esempio. Tanta ma tanta osservazione, tanti ma tanti tagli mirati di inquadratura. Ma, d'un tratto, e probabilmente senza una spiccatissima ragione, la piscina viene tagliata e l'acqua si sversa completamente nel giardino. Esattamente quel che accade nel terzo atto. Dove era nascosto quest'altro film, chi l'ha covato come un uovo, chi ha riempito la cisterna segretamente? E, allora, vien fatto di pensare che il dualismo sia la chiave di lettura di Favolacce. Due di due. Due film in rapporto binario (che è l'altra costante: il padre e il figlio, il fratello e la sorella, la madre e il padre, il ragazzino e la ragazzina). Il secondo è il film finale che si mangia tutto il tedio dell'altro film, la posa pavonica, l'atteggiamento. E così espande la sensazione dei ragazzini, dell'estate, del perturbante, della luce bianca, dello stormire di fronde. E del tempo come un elastico esausto, allentato che, a un certo punto, si spezza. E in quell'interrompersi, forse, sta tutto il senso di Favolacce. Nel paradosso di due registi di innegabile, forte personalità ma che questa volta tolgono tutto ai personaggi, compresa la cosa più importante: il loro (loro chi?) sguardo.

Nella periferia dei fratelli D'Innocenzo, romana, troppo umana, nulla sembra accadere. Il tempo è scandito dal solo ritmo scolastico, impregnato di tedio, un tedio scosso di tanto in tanto da un pezzo di carne rimasto in gola, non inghiottito, e dal panico generato. Nella Spinaceto di Favolacce, gli adulti, padri apatici e madri divenute insensibili, dicono di voler raggiungere la vetta, ma nessuno di loro ci crede veramente. Deambulano, in casa, dove coltivano le proprie frustrazioni, e si lasciano vivere fuori, immobili, nell'attesa vana di un evento che possa muovere la Storia (o farla cominciare). Un evento ci sarà, alla fine, ma in forma di tragedia: come chiudere una Storia mai aperta.
La crudeltà umana non sorprende più. È necessario forgiare un nemico, fantomatico, per far affiorare una rabbia che non osa più dire il suo nome, senza oggetto e senza soggetto: antipasoliniana. I veri nemici degli eroi sono gli eroi stessi, eroi che poi eroi non sono; vite che non aspirano più a niente, ma che continuano ad ispirare autori in cerca di personaggi. Gli autori sono essi stessi personaggi, in cerca di vita. Ma può esserci “vita” in un contesto in cui tutto pare prefabbricato (dalla piscina alla torta di compleanno), in cui tutto sembra essere “pre-” qualcosa: -determinato, -definito, -scritto, -visto? Un contesto paradossale, immobile e stabilmente alla deriva: in balia di flutti, di scorie che provengono da altri mondi, quelli sognati, quelli teletrasmessi. Non c'è speranza, in Favolacce, nemmeno tra i ragazzi. Al centro di questa storia di periferia, gli adolescenti e bambini non hanno la vitalità primigenia dei “borgatari” di Pasolini; non sono ragazzi “di vita” ma (in cerca, o in attesa) “di morte”, anche se terribilmente coscienti, o forse proprio perché terribilmente coscienti.

Come un altro film “accio”, i Mortacci di Sergio Citti, Favolacce è un racconto morale senza vie di uscita che non siano “esplosive”: una favola malandata, che pare esser stata presa a calci e pugni da ex culturisti “sitiani” (nel senso Siti Walter) decaduti e sgonfiati. Nel presupposto teorico del film (“ispirato ad una storia vera ispirata ad una storia falsa, la storia falsa non è molto ispirata”) riecheggia il barocchismo del succitato autore di Troppi paradisi e, ancor prima, una massima del Macbeth. Il narratore della Favolacce non è “un idiota” come il narratore della “favola” shakespeariana, ma un adulto che si finge adolescente e che non sogna più; che troppo sa, troppo ha visto, ma che si fa comunque carico di raccontare la “solita” storia, “piena di suoni e di furia senza significato”: Du bruit et de fureur (altra grande “favolaccia” di periferia, firmata Jean-Claude Brisseau). Un'intimità disvelata (il diario), dissepolta (tra diversi numeri di “Tv Sorrisi e Canzoni”), portata avanti da un narratore stimolato da reticenze provocanti, da intense banalità, da fanciullesche inconsapevolezze; una voce diegetica e postuma, che ci narra l'infanzia in “prima persona adulta”.
Proprio per questo i bambini di Favolacce guardano e vedono oltre, perché guardano e vedono con gli occhi dell'autore che sa: «ma tu sei proprio sicura di volere un figlio?» «Tu e mamma, state bene?» Il narratore adulto non dà quindi voce all'infanzia, è la voce di un'infanzia disperata, distruttrice e mortifera, che porta sulle spalle il dolore di tutti, anche e soprattutto di quelli che, accecati da miraggi sempre più sfuocati, più non vedono.
I ragazzi: l'enigma che gli adulti non possono più risolvere ma solo subire. Alla fine, per dar senso e fare evento, per risvegliare in parte le coscienze sopite, non resta che la tragedia. Una bomba, del veleno: chiudere bruscamente un racconto inevitabilmente “poco ispirato”, perché ispirato a fatti realmente accaduti là dove la Storia è già finita da tempo, o non è mai cominciata.