
TRAMA
L’affaire Valerie Plame, l’agente sotto copertura della CIA la cui identità venne rivelata nel 2003 mediante un attacco stampa manipolato da funzionari vicini al vicepresidente Cheney, mettendo così fine alla sua carriera, con tutti i rischi del caso, al fine di screditare lei e il marito Joe Wilson, ex ambasciatore in Gabon ed esperto di questioni africane e mediorientali , colpevole di aver denunciato sulle pagine del New York Times la non esistenza delle discusse armi di distruzione di massa irachene e la connivenza dell’intelligence con le bugie dell’amministrazione Bush.
RECENSIONI
La doppia vita di Valerie Plame, agente della Cia assegnata al dipartimento che si occupa del traffico di armi di distruzione di massa, si regge su un equilibrio sottile tra pubblico e privato, essendo la sfera pubblica (la sua attività lavorativa) soggetta per ovvie ragioni a segretezza e quella privata (il suo essere moglie di un diplomatico e madre di due bambini) ottimo biglietto da visita all'insegna dell'insospettabilità. Equilibrio che crolla, o meglio viene fatto crollare, quando proprio il privato (la coppia di coniugi e le verità cui giungono) comincia a costituire una seria minaccia per la solidità dell'immagine pubblica (le ragioni sbandierate dallo Stato a sostegno dell'aggressione a Saddam Hussein). La copertura della Plame salta, la sua identità rivelata dall'amministrazione Bush per screditare assieme a lei il marito colpevole di aver denunciato alla stampa, sulla scia anche delle conclusioni dell'inchiesta della moglie, la falsità del casus belli (nel particolare la mai avvenuta vendita di uranio dal Niger al dittatore iracheno). Risultato: la guerra si infiltra tra le mura domestiche della coppia, additata come antipatriottica, divisa sull'opportunità o meno di combattere contro il governo statunitense, pubblico e privato si stremano l'un l'altro, liquefacendosi in un pantano in cui è troppo facile affondare.
Tratto da una storia vera che ha scosso l'opinione pubblica americana all'indomani dello scoppio della seconda guerra del Golfo, sceneggiato dai fratelli Jez e John-Henry Butterworth sulla base dei libri autobiografici scritti dagli stessi protagonisti della vicenda, The Politics of Truth di Joseph Wilson e Fair Game di Valerie Plame, Fair Game ambisce a riallacciarsi alla grande tradizione del thriller politico americano anni '70 - e l'impianto iconografico del film avvolto in una fotografia livida e giocata su tonalità grigie sembra confermarlo - ma del rigore (est)etico di Pollack e Pakula e della loro urgenza c'è ben poco. A voler fare il giochino di rintracciare una minima linea autoriale (il film è stato considerato degno della competizione a Cannes lo scorso maggio), in questo film Liman sembra incrociare su un comune terreno spionistico la tensione di The Bourne Identity, il primo della saga, e le dispute coniugali di Mr & Mrs Smith, rilanciandole in una dimensione più 'seria' e politicamente engagé. Preoccupato di vivacizzare la materia, il regista si dedica nella prima parte ad escursioni geopolitiche condite con qualche tocco action e corredate di macchina a mano energizzante, invero prive di particolare brillantezza, per poi assestarsi dopo l'esplodere dello scandalo mediatico su toni più riflessivi e su una temperie emotiva da assedio, riproponendo senza mordente immagini usurate (appuntamenti cruciali su panchine che guardano il Campidoglio, il riposo notturno di un coniuge sul divano a significare la crisi di coppia, le minacce telefoniche) e gestendo mediocremente la suspense (si veda come viene sprecata la sequenza della lite al parco).
Nel trattare il cosiddetto "Plamegate", Liman non sembra riuscire ad andare al di là di una pigra illustrazione: il potenziale corto circuito pubblico-privato non trova espressione in un discorso visivo degno di nota, sgonfiandosi infine nella messa in scena abbastanza bolsa e poco appassionante di una crisi matrimoniale presto superata in nome di un comune impegno per far trionfare la verità. E anche dal punto di vista prettamente politico, il resoconto dei fatti è imperniato su unesposizione così elementare e così poco problematica che fa sì che non si vada al di là di un bignami della retorica liberal anti-bushiana sciorinato fuori tempo massimo. Le due star ingaggiate stavolta non fanno la differenza, alle prese con personaggi poco duttili nonostante il dilemma in scena, la Watts corretta e professionale ma nulla più, Penn sovrapponendo la sua icona democratica e la sua foga militante alla figura leggermente sovrappeso e in odor di agiografia di Joseph Wilson. L'unico vero brivido si ha proprio alla fine, al cominciare dei titoli di coda, quando nel momento della deposizione la Watts viene sostituita dall'autentica Valerie Plame, corpo sorprendentemente quasi più hollywoodiano di quello della sua interprete su grande schermo, documento video impregnato di (in)consapevole glamour inoculato nella (volutamente?) dimessa ricostruzione cinematografica, scheggia imprevista di vertigine fiction/non fiction che doppia la questione pubblico-privato. Ma è solo un attimo, troppo poco e troppo tardi.
