
TRAMA
10 maggio 1996: 9 scalatori, guidati da Rob Hall, affrontano la scalata dell’Everest. Sarà una lotta per la sopravvivenza, e non tutti la vinceranno.
RECENSIONI
Mammà mi diceva sempve: “non mi vompeve i coglioni, sei uno smidollato, come uomo non esisti, sei un imbviacone!”. E allova mi sono incazzato e un giovno ho detto: basta, guavda, mi compvo una bavca, mi faccio il givo del mondo e navigo da solo, ecco. E così compii quest’impvesa, feci il navigatore solitavio, giovno e notte fva cielo e mave, mave e cielo, in questa natuva, padvone del mondo (…). Solo, nell’immensità del mave, in assoluta meditazione, a contatto della natuva più puva… è allova che capisci… quanto sei stvonzo a compieve queste impvese che non sevvono a un cazzo.
(Giovan Maria Catalan Belmonte)
Dopo la parentesi pulp-eggiante anni '90 di Cani Sciolti, Kormàkur prosegue il discorso iniziato in The Deep, con un'altra storia-vera-di-uomini-che-sfidano-la-Natura. Confesso subito la mia pregiudiziale avversione nei confronti dei film ispirati a fatti realmente accaduti, ché mi sembrano malcelare una sorta di ricatto (u)morale nei confronti dello spettatore e mutuare per vie traverse meccanismi e dinamiche della cosiddetta, inaccettabile TV verità. Con ovvie eccezioni ma molte conferme. E altri rischi connaturati alla categoria, rischi perfettamente esemplificati proprio in questo Everest. Il problema delle Storie Vere, infatti, è che spesso non seguono i canoni della narrazione classica e di certo non si confanno ai codici del racconto di Genere. Che fare? Ci si può attenere - il più possibile - ai crudi fatti lasciando che il significato affiori dal significante in tutto il suo non-necessariamente-sensato realismo (Film d'Autore), oppure si romanza, come si dice, con i rischi che questo comporta, dando in pasto al pubblico pagante qualcosa di entertaining che però tradisce le sue ipotetiche intenzioni veriste (Film di Genere).
Kormàkur ha probabilmente cercato di tenere i piedi nelle due staffe. Spettacolarizzazione con senso della misura, insomma. La scansione del film sembra seguire i dettami del tipico film avventuroso, col prologo che introduce vicenda/luoghi/personaggi, una parte centrale che costruisce la suspense fino al deflagrare dei “fatti movimenta(n)ti” e un finale in cui si tirano le somme e si dà un senso alle prime due sezioni. Ora, il problema è che in questo tipo di film, di solito, l’empatia per i personaggi, e il conseguente interesse per le loro sorti, scatta automaticamente, spesso grazie a impostazioni narrative infantili ma più o meno efficaci nella loro basicità. Rimanendo in alt(issim)a montagna, pensiamo a Cliffhanger: c’è Stallone che sfida il freddo, il ghiaccio e la morte per 1) superare ingiustificati ma terribili sensi di colpa e traumi pregressi 2) soccorrere persone in difficoltà (che si riveleranno delinquenti della peggior specie) e 3) riconquistare la fiducia di un amico. Chi siamo, noi, per non essere dalla sua parte?
In Everest le cose sono un po’ più complicate. Nessuno dei personaggi è capace di suscitare vera immedesimazione empatica. Non in tutti, almeno. Meglio: probabilmente solo gli alpinisti estremi(sti) riescono a entrare veramente negli arditi arrampicatori. Perché alla fine, quello di cui stiamo parlando sono, fondamentalmente, due organizzatori di scalate (un brav’uomo d’affari e una rockstar) a scopo di lucro che reclutano (quasi tutti) facoltosi in cerca di emozioni forti e/o di esperienze limite per sentirsi vivi. Ovviamente, il film fa di tutto per non renderli antipatici e sembra giocare la carta della sospensione del giudizio. Alla domanda chiave di Krakauer – Perché? - rispondono che vogliono scalare l’Everest perché è lì. Yasuko Namba dice che lo fa per completismo (è l’ultima delle sette vette che le manca) mentre l’unico per il quale la sceneggiatura sembra trovare un guizzo (finanche troppo) sentimentale è Doug, con la storia dei bambini e della colletta (invero poco convincente: in che modo, esattamente, il suo esempio avrebbe dovuto essere edificante per dei bambini delle scuole elementari? Al di là della questione insegui i tuoi sogni e si avvereranno, nota e pericolosa truffa emotiva, la sua impresa specifica è abbastanza gratuita tendente all’inutile. E gli costerà la vita). Più tardi, Beck Weathers dirà che lo fa perché, in pratica, a casa con moglie e figli si annoia. Il pensiero va all’Herzog di Grizzly Man, che dava tutta un’altra dimensione al misterioso, un po’ ottuso inseguimento dei sogni. Non c’entra, però c’entra.
Ecco che il posizionamento dello spettatore, nei confronti dei personaggi, manca di decisione e di forza. Non arrivo a dire che sfugge la parte in cui dovrebbe fregarcene qualcosa ma è innegabile che, trattandosi fondamentalmente di un film di azione/avventura, la mancata, decis(iv)a adesione ai destini degli agenti coinvolti può essere un limite non esattamente trascurabile. E a poco servono i guizzi strappalacrime (le mogli in apprensione, una delle quali incinta) ché anzi, rischiano quasi di peggiorare la situazione quali elementi troppo chiari e univoci in un contesto che, come detto, non sembra fare abbastanza per renderci le sorti dei protagonisti davvero “care”. Non appaiono peregrine similitudini e omologie con Into the Wild, sempre tratto da Krakauer.
E’ un’indecisione un po’ schizofrenica che si ripercuote anche sugli aspetti puramente formali del film. Kormàkur sceglie tempi dilatati, non concede troppo alla facile spettacolarizzazione e visivamente ci consegna una pellicola abbastanza casta e misurata, parca di virtuosismi e irruzioni nell’intrattenimento puro. Pellicola che però, ripetiamo, per altri versi sembra invece seguire pedissequamente dettami cinematografici che ci aspetteremmo sfociare/esplodere in altri esiti, proprio dal punto di vista dello specifico filmico. Invece, tutto sembra implodere in un poco di fatto pericoloso. A fine proiezione, il rischio è che ci venga girata la domanda di Krakauer: perché?

Storia vera, con tanto di fotostatiche dei protagonisti originali, affidata ad un’ottima sceneggiatura di William Nicholson e Simon Beaufoy, basata su "Left for Dead" di Beck Weathers (e non su “Aria Sottile” di Jon Krakauer, altro sopravvissuto: il giornalista). Era difficile evitare stereotipi cinematografici nella descrizione di fatti ed emozioni coinvolte: l’approccio corale, invece, riesce benissimo, rendendo toccanti e credibili anche i controcampi sugli affetti “lasciati a casa”, di solito i passaggi più deboli e risaputi in strutture drammaturgiche di questo tipo. Efficaci anche la descrizione delle tecniche nella scalata e, quando si palesano, seppur fumosi, i “perché” della tragedia (indirettamente, l’opera fa notare che le persone alla ricerca di avventure di questo tipo non si fanno molte domande in merito). Per chi ha bisogno di colpevoli, il dito è puntato (sempre indirettamente, forse non volutamente) sugli sherpa o le guide (prima le corde non messe, poi le bombole di ossigeno vuote) ma è anche vero che la scelta fatale la fa il protagonista (l’ottimo Jason Clarke) aiutando un amico. Tanti buoni interpreti fanno la differenza: Jake Gyllenhaal, ad esempio, lascia il segno anche in un ruolo minore. Senza dimenticare l’islandese Baltasar Kormákur che sa cos’è il freddo, che sceglie di girare con meno effetti digitali possibile (il Campo 1 ripreso in Val Senales; il Campo 4 con il green screen e modelli 3D delle location in fotogrammetria), sfruttando anche un’enorme vasca a Cinecittà. Della montagna fa sentire allo spettatore tutto: il gelo, la neve, il vento, l’abisso. E la tridimensionalità, in questo senso, è fondamentale. Lode anche al modo in cui ha tenuto le fila del racconto e dei caratteri.
