TRAMA
RECENSIONI
È presto detto come Euphoria, tra i primissimi teen drama prodotti dalla “adulta” HBO - basato sull'omonima miniserie israeliana -, si sia istantaneamente imposta come una delle serie da guardare degli ultimi anni: cronaca di vite adolescenti al limite, ultra trasgressive o ultra glamour, la creatura di Sam Levinson pare fatta apposta per suscitare reazioni adoranti (o sdegnate), per diventare trend topic su Twitter, per saturare l'immaginario zoomer della propria estetica fluida, fluorescente, a tratti deliberatamente kitsch. La prima stagione della serie lancia ami stuzzicanti, lusingando lo spettatore con promesse di massicce dosi di sesso, esteso uso di droga e una colonna sonora innegabilmente cool, ma finisce per avviluppare chi guarda in un carosello mortifero, più angoscioso che scabroso: glitter sugli occhi e cicatrici nei cuori, gli adolescenti di Euphoria vivono vite in Technicolor, ma pulsanti di dolore autentico. Non si è mai troppo piccoli per stare troppo male, ci dice Levinson, e compila la fenomenologia di una generazione traumatizzata attraverso un caleidoscopio di voci e di personaggi sbandati (il coro si ricompone solo nel punto di vista della tossicodipendente Rue, eroina disperatissima e bugiarda patologica, che si ritrova appiccicato addosso l'ingrato ruolo del narratore onnisciente). Poi arriva il 2020, e la pandemia paralizza l'industria televisiva. Levinson (che in quei mesi, sempre con la musa Zendaya, trova pura il tempo di dirigere Malcolm & Marie) gira due episodi stand alone, in attesa di poter realizzare la seconda stagione. È una prova di maturità superata a pieni voti, perché lo showrunner dimostra di saper fare a meno delle sbornie figurative, dei virtuosismi esasperati e della struttura polifonica del racconto.
Trouble Don't Last Always, probabilmente la puntata migliore dello show, è una seduta confessionale ininterrotta tra Rue e il suo sponsor, ingaggiati in un corpo a corpo sfiancante da cui emerge solo un'amara certezza: si finisce per fare più male a chi si ama di più. Gli episodi speciali confermano l'attitudine di Levinson per una scrittura che sappia svilupparsi orizzontalmente e verticalmente a un tempo, producendo puntate che sono anche meravigliose opere autonome, pretesti per altrettanti esercizi di stile (si sperimenta con l'horror, col thriller, col dramma da camera e via discorrendo). Nel 2021 arriva finalmente la seconda annata, e il corpo gommoso e nervosissimo di Zendaya sembra di colpo interessare meno a un Levinson che comincia a girare a vuoto, a disperdersi in rivoli secondari, a gettare al vento storyline bruscamente interrotte. Euphoria si avvita su se stessa, ma va bene così: i topos del teen drama sono tutti ancora lì, e così pure le tribolazioni esistenziali che attanagliano i protagonisti (tali sono per Levinson le questioni di identità di genere e di orientamento sessuale: un fatto esistenziale, ancor prima che politico), ma le trame s'arrampicano su vette di pathos parossistiche, mentre il gioco delle voci sovrapposte comincia a somigliare a un frastuono. L'ultima puntata della seconda stagione segna un punto di non ritorno: s'intintola The Theatre and It's Double, “apostrofando” Artaud, e mette in scena la messa in scena della serie. La mise en abyme tradisce il narcisismo dello show, ma ne rivela anche l'urgenza più autentica: ci raccontiamo i nostri traumi perché ne abbiamo bisogno; li riascoltiamo ancora e ancora perché a trasformarli in storie, forse, fanno meno male.
