Drammatico

EUFORIA

TRAMA

Matteo è un giovane imprenditore di successo, spregiudicato, affascinante e dinamico. Suo fratello Ettore vive ancora nella piccola cittadina di provincia dove entrambi sono nati e dove insegna alle scuole medie. È un uomo cauto, integro, che per non sbagliare si è sempre tenuto un passo indietro, nell’ombra. La scoperta di una malattia grave che ha colpito Ettore (della quale lo si vuole tenere all’oscuro) spinge Matteo a tornare a frequentarlo e ad occuparsi di lui.

RECENSIONI

Miele e Euforia, due cose che stanno bene insieme, due titoli ugualmente suadenti che celano un’antìtesi: nella seconda, come nella prima opera da regista di Valeria Golino ciò di cui si parla realmente sono il dolore e la morte. E non si tratta di esercizio retorico, ma di sfumature e di contrasti autentici che intervengono come un amalgama di sensazioni in circostanze che mai possono dirsi davvero collaudate, nemmeno quando il dramma che le muove è diventato così diffuso da potersi definire “attuale”, come l’eutanasia, nel primo film, e il cancro, nel secondo. «Sbaglio sempre qualcosa», diceva, affliggendosi, la Jasmine Trinca di Miele, così come sbagliano sempre qualcosa i due fratelli Ettore e Matteo, Mastandrea e Scamarcio, nel faticoso relazionarsi che li vede inconciliabilmente distanti per modi, stile di vita, scelte, perfino orientamento sessuale. Il loro abbraccio è una congiunzione profonda tra due persone profondamente diverse che interviene quando tante parole sono state dette e tante altre taciute, quando ormai è troppo tardi per molte cose, ma non per tutte, di certo non per quell’abbraccio che significa un mondo.  Chi non sbaglia, nel raccontare tutto questo, è Valeria Golino che tiene testa a un tema forte, a quella “attualità” che rischia di portarsi dietro strascichi di pathos e di retorica o, peggio, di retorica alternativa; lei ha invece, ancora una volta, un tocco saldo e lieve, una schiettezza che non scade nella facile ricerca di consenso, ama i suoi personaggi e i suoi attori con ravvisabile autenticità, non cavalca l’onda delle emozioni e delle sensazioni facili, ma vi si immerge, come l’Ettore di Mastandrea che ama le immersioni, l’incremento della pressione man mano che si discende e che aumenta l’acqua sulla testa, quando intorno si fa più freddo e più buio e allora subentra quella sensazione di ebbrezza da fondale che, dopo lo stordimento, procura euforia: così accade, a chi sta molto male, di accorgersi dello splendore incomprensibile del mondo, all’improvviso. In questo, il volo a stormo degli uccelli libera quella che in Miele era una narrazione intimistica –e metaforica fin dalla prima inquadratura su una vetrata a rulli che ricordava un alveare-, più pulita e più lineare, ma al contempo più introspettiva; Euforia esce da sé fino a ritrovarsi in bilico, su una terrazza romana con vista Altare della Patria. Nella vita brillante, viziosa e autodistruttiva del fratello di città (Scamarcio), nei suoi pellegrinaggi dell’ultim’ora a Medjugorje, nei suoi affari in Vaticano, subentra un tratto improbabile e forzato e, poiché quella città è Roma, ecco che fra terme e partying hard l’influsso sorrentiniano si fa evidente, gestito in autonomia, ma irresistibile tendenza. E anche se il fratello di campagna (Mastandrea) ha un’ironia efficace, familiare ma non risaputa, riconosciamo in lui il romano periferico, con la sua nevrosi romantica e le sue frustrazioni. In somma, le due tendenze del cinema capitolino sembrano irrinunciabili, anche quando un lavoro possiede un suo respiro. Significa, probabilmente, che quel respiro ha bisogno di diventare più ampio. Le premesse ci sono, gli attori anche (torna la Iaia Forte dei camei, sempre insopportabile e irresistibile e la bellezza dolce e severa di Jasmine Trinca con poche inquadrature, ma memori del film precedente) e poi c’è la musica. In a manner of Speaking nella versione dei Nouvelle Vague e, sui titoli di coda, nell’originale dei Tuxedomoon parla di cose che non possono essere descritte a parole, ma ne parla, e ne chiede ancora: è emblematico incontrarla in un film in cui un fratello, fra tante cose non dette, non comunica all’altro di cosa si è realmente ammalato, ovvero quel tumore che si teme sempre di nominare, di cui però ci fornisce l’etimologia, “dal latino tumeo, gonfiore”, facendoci il favore di sfatare le diffuse false etimologie che ravvisano somiglianze con “tu” e un fantomatico verbo morire, come un dito puntato: l’ultima cosa di cui c’è bisogno, specialmente per un argomento al quale tocca fare l’abitudine. Parole che dicono tutto e che dicono niente, come da canzone. “Vecchia, ma bella” nota qualcuno da un’auto di passaggio. Il rovescio del cinico ingegnere di Miele che sdegnava il linguaggio dei giovani e la loro musica noiosa, forse perché li guardava, o ne era guardato, da un’abissale anti-euforica distanza.