TRAMA
Roman è avvocato a Los Angeles e lavora in uno studio che si occupa di clienti, appartenenti a classi sociali bisognose, spesso impossibilitati ad avere una difesa degna di questo nome. Roman, anche per il carattere che ha che lo spinge a non trattenersi dinanzi a palesi ingiustizie, è stato sempre tenuto dal suo collega William Jackson nelle retrovie a preparare la documentazione dei casi. Quando però William viene ricoverato in ospedale senza speranza di recupero tocca a Roman presentarsi in tribunale e già la prima causa gli crea dei problemi. Le cose si complicano quando lo studio viene chiuso e chi si deve occupare dell’operazione comprende le sue doti e ne vuole acquisire le competenze mettendole però a servizio del puro e semplice guadagno. Roman cerca di barcamenarsi fino a quando un giorno si fa tentare da un’azione illegale.
RECENSIONI
Roman J. Israel, Esq. Un nome e una qualifica professionale, nulla più. Il titolo originale, forse, rivela poco (soprattutto se messo a confronto con l'altisonante e banale traduzione per la distribuzione italiana, End of Justice - Nessuno è innocente) eppure è sufficiente a mettere fin da subito in evidenza il nucleo pulsante del film. Nel ricalcare precisamente la forma attraverso cui il protagonista si presenta a tutti i suoi interlocutori, il titolo del film altro non è che un biglietto da visita consegnato allo spettatore: c'è un nome, e dietro al nome una persona. Quello di Roman J. Israel, come tutti gli altri, è un nome che andrebbe ricordato. Perfino nella fredda ed egoista società contemporanea, perfino all'interno di ambienti tradizionalmente gelidi e fordisti («Mi scusi se disturbo per un nanosecondo la sua vita alla catena di montaggio di timbri e controlli» dice il protagonista ad un viceprocuratore) come le corti di giustizia e gli studi legali. A differenza dei suoi colleghi infatti, Roman ricorda tutto ed è profondamente ancorato a valori e sentimenti di un mondo che non c'è più (e che forse non c'è mai stato): conosce il Codice a memoria, ricorda tutti i casi che sta seguendo, è sensibile alle basilari norme di cavalleria, preferisce lavorare con la carta piuttosto che con i più recenti programmi digitali. In questa realtà, Roman è un alieno, un estraneo che cerca a tutti i costi di rispettare e far valere il proprio integerrimo codice etico e morale. Un freak, per dirla con le parole di uno dei volontari dell'Assemblea nazionale per i diritti civili, una figura fuori dal tempo che, per incapacità o esplicito rifiuto, sembra non riuscire ad allinearsi con l'ambiente che lo circonda.
Dopo il sorprendente esordio Nightcrawler - Lo sciacallo, lo sceneggiatore e regista Dan Gilroy torna a riflettere sui limiti e le contraddizioni della morale che sta alla base di determinati ambiti professionali facendo nuovamente poggiare tutto il racconto sulle spalle di un unico protagonista. Lo sguardo allucinato di Jake Gyllenhaal e i tic e le ossessioni di Denzel Washington si fanno però testimoni di due modi di vivere la realtà che sono diametralmente opposti: laddove il primo è pronto a tutto pur di spingere e oltrepassare i limiti etici che stanno alla base dell'ambiente in cui ha scelto di lavorare, il secondo cerca a tutti i costi di restare puro in un mondo in cui la purezza non è contemplata. L'uno si adatta fin troppo bene, l'altro oppone resistenza; l'uno sopravvive e incrementa il suo discutibile modus operandi nonostante le malefatte compiute, l'altro alla fine sarà costretto a fare i conti con l'impossibilità di sintonizzarsi con un mondo che va in tutt'altra direzione. Saranno proprio il confronto forzato con tale realtà dopo anni di lavoro dietro le quinte e il conseguente tentativo di cambiare maschera per adeguarsi all'ambiente che lo circonda, a condurre Roman (ma non il suo esempio) alla disfatta.
Insomma, con la parabola di Roman J. Israel, Esq. il cinema americano si schiera ancora una volta dalla parte dell'uomo, nel tentativo sempre più irrinunciabile di far trionfare l'umanità (la complessità, la dignità, l'etica, la morale, la necessità di connessione emotiva, prima che meramente professionale, fra gli individui) in un mondo guidato unicamente dal denaro e dalle più disparate forme di menefreghismo. Nonostante il progresso tecnologico e l'utilizzo sempre più massiccio di forme di comunicazione in assenza (e quindi a distanza) sembrino idealmente condurre verso una svalutazione della componente affettiva dell'individuo (l'immaginario distopico novecentesco è duro a morire), quello relativo al fattore umano è un tema che riaffiora costantemente nella filmografia statunitense contemporanea, tanto da chiedere a gran voce di essere posto al centro del discorso. Siamo dalle parti, ad esempio, del Sully di Clint Eastwood, dello Steve Jobs di Sorkin-Boyle (con cui il personaggio di Roman condivide in un certo senso la dicotomia tra backstage e palcoscenico della vita), così come di The Post e di gran parte della filmografia di Spielberg, la cui poetica è condensata in modo cristallino anche nel più recente Ready Player One. Gli esempi ovviamente sono numerosi e End of Justice non ha certo la forza per aggiungere riflessioni sostanziose ad un discorso già molto ampio e articolato. Resta tuttavia un film solido, in cui Gilroy dimostra nuovamente di sapersi destreggiare abilmente tra scrittura e regia, perfino in un racconto che, a differenza di Nightcrawler, tende a mettere in risalto la prima rispetto alla seconda. Un film buono e giusto dunque, estremamente centrato, a tratti schematico ma solo raramente didascalico, formalmente piuttosto classico e per questo molto contemporaneo.