Commedia, Recensione

EFFETTO NOTTE

TRAMA

Le riprese del film “Vi presento Pamela”, scandite da amori, liti, amarezze e nevrosi della troupe.

RECENSIONI

“Per voi non è che un film, per me è la vita intera”.
Uno dei piani sequenza più vertiginosi e divertenti di tutta la storia del cinema apre la più fervida e, insieme, malinconica dichiarazione d’amore mai rivolta ad un medium artistico. “Effetto notte” è un inno al cinema che, sotto una superficie brillante e irresistibile (la fotografia di Pierre William Glenn e le musiche di Georges Delerue sono prodigiose), (non) nasconde la disperazione per la precarietà di ogni opera umana, mai del tutto al riparo dalle minacce tanto della vita (la gravidanza di una delle attrici, che comporta particolari accorgimenti di ripresa e modifiche del piano di lavorazione) quanto della morte (il decesso di uno dei protagonisti). La rappresentazione dell’ambiente cinematografico è lucidamente beffarda: il regista è quasi sordo (sorridente allusione alla presunta “autosufficienza” del genio creatore, interpretato dallo stesso Truffaut), gli attori dimenticano le battute e i gesti (Séverine alle prese con i numeri, la porta e l’armadio), i tecnici preparano trucchi ingegnosi ma inutilizzabili (la candela illuminata dall’interno, destinata a “saltare” al montaggio). Il microcosmo del set è una fiera delle vanità, ma non dell’inutilità: il cinema è pura, sfacciata finzione, l’unico modo di ricomporre i tasselli confusi del rompicapo della vita. Le storie personali degli artisti si sviluppano parallelamente alla trama del film proprio perché“Vi presento Pamela” è, nel suo apparente schematismo dafeuilleton, un compendio dell’esistenza umana, sospesa fra amore e morte, passato e presente, timore e audacia, ribellione e dolore. Non è la vita che imita l’arte (perché anche la vita “vera”, qui, è finzione), ma la natura dell’esistenza umana che dà corpo alle storie narrate e a quelle narranti, in un’infinita vertigine di riflessi. “Si può fare un film su qualunque cosa”, afferma Ferrand. La banalità quasi offensiva del racconto (una stessa fabula riproposta con infinite variazioni) permette a Truffaut – come personaggio-regista e regista tout court – di concentrarsi sul raccontato: una delle scene più belle illustra le difficoltà riscontrate dalla troupe nel convincere un micio a “seguire il copione”, evitando di compromettere l’inquadratura. L’attenzione al dettaglio, anche inutile, impossibile da cogliere alla prima e persino alla centesima visione, è la testimonianza dell’amore del regista e di tutti i suoi collaboratori per il “bambino” che sta per nascere: il cinema – non solo hollywoodiano – classico sarà anche agli sgoccioli (la morte di Alexandre è quasi la tromba dell’Apocalisse), ma l’affetto che lo ha animato non può dissolversi nel nulla. Muteranno gli accidenti, non la sostanza di questa commovente follia organizzata. Stupefacente la prova di Valentina Cortese.