TRAMA
Anni 80. Kolima e Gagarin vivono a Bender, capitale della Transnistria, nel quartiere Fiume Basso dove vige un codice d’onore, regolato da un’educazione criminale, secondo la tradizione siberiana.
RECENSIONI
Breve memorandum sul caso letterario: Nicolai Lilin ha origini russe, ma vive nel nostro Paese da una decina d'anni; ha scritto Educazione Siberiana in italiano e non vuole sia tradotto in russo. Pubblicato da Einaudi, il volume è un'ambigua ricostruzione di una società, quella della malavita della Transnistria, una regione dell'ex Urss (proclamatasi indipendente nel 1990) nella quale, con l'avvento del regime comunista, venne deportata la comunità degli Urka, briganti della foresta siberiana. Ambigua perché, con una strategia che è tutta editoriale (trattasi di spudorata operazione), si è giocato un po' sul carattere da attribuire all'opera: è dunque Educazione siberiana un libro di memorie? Un reportage? Un saggio romanzato? Un romanzo e basta? La questione viene lasciata furbescamente aperta.
Di modestissimo valore letterario, il volume ha il suo motivo di interesse nel mondo che riesce a costruire, mettendo in scena una comunità criminale che vive in una vera e propria terra di nessuno, in cui lo Stato è assente, ma nella quale i rapporti sono regolati da un codice etico rigorosissimo (l'arricchimento è visto come deleterio: un uomo non può possedere più di quanto il suo cuore possa amare), fatto di regole d'onore e di tradizioni avite, di segni corporali (tatuaggi che sono vere e proprie mappe esistenziali), di violenze crudeli e slanci umanissimi, di ferocia e condivisione. Il libro non ha una narrazione propriamente detta, si propone come successione di microeventi legati a personaggi diversi, a esemplificazione delle usanze e dei rituali della comunità minacciati dall'avvento del consumismo di marca occidentale.
Per una curiosa coincidenza il giorno prima di vedere il film di Salvatores ho assistito all'allestimento teatrale di Giuseppe Miale di Mauro; una messinscena piuttosto elaborata, non priva di idee, metteva in luce impietosamente la pochezza del testo rappresentato: il tentativo di trarre dall'opera (con tutta la libertà che la scelta di portare sul palco un libro siffatto richiedeva) una drammaturgia convenzionale e omogenea faceva risaltare in modo inequivocabile quanto mediocre fosse la tenuta drammatica delle vicende narrate, inscindibili da quella trattazione antropologica che è poi il cuore pulsante del libro e, a conti fatti, come detto, la sua unica ragione d'essere (siano veri o meno i fatti in esso descritti).
Il rischio di affidarsi a una narrazione siffatta deve averlo compreso bene Salvatores che, facendosi forte del potenziale del mezzo cinematografico, più duttile di quello teatrale, rispetta maggiormente il carattere del libro - non attaccandosi a tutti i costi a un racconto lineare - mantenendone la struttura frammentaria. Il tocco degli sceneggatori Rulli e Petraglia in questo senso si avverte in maniera distinta: attraverso salti temporali e flashback strategici, mantengono un filo costante sempre altamente leggibile, punteggiandolo con micronarrazioni e cellule aneddotiche volte a delineare caratteri e a segnalare l’evolversi delle vicende dei protagonisti: in questo senso il personaggio del nonno (John Malcovich) diventa la didascalia necessaria (e forzata) a sostenere l’impalcatura dello script e a mantenere il dato saggistico, così preponderante nel testo (e, ribadisco, a conti fatti imprescindibile in una riduzione che pretenda di funzionare).
Se le scelte di impostazione non mi sembrano criticabili, rimane ferma la debolezza di quanto viene narrato: il racconto del conflitto (interiore ed esteriore, individuale e sociale) generatosi con il crollo del blocco sovietico, non ha mordente e i personaggi chiamati ad incarnarlo si rivelano fragili paradigmi, proposti senza veri tentativi di elaborazione (i due protagonisti che crescono insieme e che si ritrovano, in età adulta, su due barricate opposte: tradizione ed etica si scontrano con sprezzo per le regole e bieco profitto).
Soprattutto: non c’è un’idea filmica forte, tale da restituire un senso ultimo a questa trascrizione cinematografica, rimanendo netta l’impressione che questo lavoro sia solo l’ulteriore step di un’operazione di marketing ben congegnata, più che una grande tragedia moderna. La regia di Salvatores - regista, ai miei occhi, spesso stilisticamente imperscrutabile (si decifri, in qualche modo, l’ubriacatura wesandersoniana del suo penultimo titolo, ad esempio) - oscilla tra l’accattivante calligrafia (soprattutto la parte dedicata all’infanzia dei protagonisti) a un vero e proprio sbarellamento di registro (il poeticismo della storia di Kolima e Xenia); tra puntate azzardate su certa strampalatezza à la Kusturica (tutta la scena del fiume) fino all’anodino action militaresco che si ritrova nel livello del Kolima adulto. ll risultato, per quanto ben girato, si presenta come un disarmonico e alquanto freddo romanzo di formazione.
Adattando il romanzo autobiografico di Nicolai Lilin, che risiede in Italia da dieci anni e ha collaborato al film disegnando anche i tatuaggi, Gabriele Salvatores, per la prima volta, gira in inglese con un cast internazionale. Il materiale è eccentrico, descrive una comunità e regole “fuori dal mondo”, ma Salvatores, appena può, piega tutto alle convenzioni di genere, rincorrendo il racconto d’infanzia stile Io Non ho Paura, l’epopea criminale dal respiro classico e romantico di C’era Una Volta in America, il prodotto alla moda dove, con pizzichi di commedia e adrenalina d’azione, si può “sparare” anche la colonna sonora. Il problema della sua drammaturgia, in questo senso, è che è talmente imbrigliata in percorsi “già” percorsi, anche di costruzione a flashback, che molte svolte o sorprese potenziali diventano prevedibili: con gli sceneggiatori Rulli e Petraglia crea, cioè, una linea narrativa “orizzontale” per unire gli aneddoti del libro che è più risaputa di questi ultimi. Altrimenti detto, la scrittura non è altrettanto anomala di ciò che descrive. Nicolai Lilin, comunque, è rimasto soddisfatto, persuaso sia stato preservato lo spirito del suo romanzo, su di un mondo fatto di dignità che è andato scomparendo con la caduta del muro e il miraggio del denaro facile. Notevoli e carismatici il personaggio di John Malkvoich e quello (meno sfruttato) di Peter Stormare con la sua poetica del tatuaggio: anche gli altri caratteri sono convincenti, per quanto anch’essi troppo archetipici (il sovrappeso, il debole occhialuto, l’angelo innocente che sarà vittima, il bad guy ex-amico, il protagonista talmente retto da essere senza sangue). Riprese effettuate in Lituania per ricreare la Transnistria (territorio tra Moldavia e Ucraina), dove il direttivo di Stalin deportò le etnie criminali, fra cui l’urca siberiana protagonista.