Drammatico, Recensione

È PIÙ FACILE PER UN CAMMELLO

Titolo OriginaleIl est plus facile pour un chameau...
NazioneItalia/Francia
Anno Produzione2003
Durata100'
Fotografia
Montaggio

TRAMA

Federica è una ragazza molto ricca: tale privilegio la imprigiona e le impedisce di condurre una vita da adulta. Il suo compagno è pronto ad avere una famiglia ma il precedente amante torna improvvisamente sulla scena. La sua è una famiglia slegata dalla normale vita di tutti i giorni: le relazioni affettive, già conflittuali, sono ulteriormente destabilizzate dalla morte della figura paterna. Sommersa dall’eredità che sta per arrivarle, dalle sue aggrovigliate relazioni e dal peso del senso di colpa, Federica cerca conforto nell’immaginario, dove la realtà diventa perfetta e meravigliosa.

RECENSIONI

L'espressione artistica merita sempre rispetto perché è un mettersi a nudo davanti a una folla giudicante che da una comoda poltrona può decidere "questo sì!" oppure "questo no!", annullando con un cenno di dissenso le fatiche di mesi di ricerche e duro lavoro. È anche vero, però, che esporsi comporta il rischio di non piacere, perché è totalmente lecito, oltre che giusto, che il confronto con un percorso creativo provochi emozioni non per forza allineate. Lo scambio reciproco dovrebbe essere il costruttivo punto di incontro. Sta di fatto che il debutto alla regia di Valeria Bruni Tedeschi convince a metà. Se da un lato è ammirevole la capacità dell'attrice di buttarsi senza rete in una storia autobiografica e con tutta probabilità dolorosa, dall'altro, proprio questo vissuto personale e intimo finisce per permeare il film di un egocentrismo tutt'altro che necessario. Come dire, non si sentiva certo la mancanza di un bio-pic su Valeria Bruni Tedeschi. Eppure il film, dopo una prima parte claudicante, riesce a rendere universale il percorso di crescita della protagonista e il suo disagio esce da un utilizzo sfacciatamente terapeutico della macchina da presa. È la discontinuità, quindi, il filo rosso che lega le varie sequenze che compongono il lungometraggio. Nel senso che momenti riusciti si affiancano ad altri (la maggior parte, purtroppo) ridondanti, falsi e di maniera. Insopportabili, ad esempio, le lezioni di ballo che scandiscono il racconto, poco riusciti alcuni personaggi (il prete confidente), ridicolo il fidanzato che canta l'Internazionale in un grottesco crescendo. Molto divertente, invece, la riunione familiare in cui la madre (Marysa Borini, vera madre della Bruni Tedeschi e convincente attrice al suo debutto), mostrando i tesori di famiglia, affianca un Rubens alla foto del figlio vestito da Zorro. E riuscito, nella sua rappresentazione della fantasia come rifugio dagli eventi reali, il rapimento concluso con un pranzo tra famiglia e brigatisti cantando tutti insieme "El pueblo unido jamás será vencido!". La regista, nonostante un'uniformità stilistica tra realtà e immaginazione che confonde i diversi piani narrativi, è comunque meglio dell'interprete, ormai abbonata a ruoli di fragile ed eterea che rischiano di imprigionarla a vita (mentre sembra mostrare un talento naturale per i tempi comici). Brava Chiara Mastroianni, si lascia apprezzare il carisma di Roberto Herlizka, anche se farebbe piacere ritrovarlo in ruoli più vitali (dopo la difficile prova in "Buongiorno, notte" è qui un patito malato terminale). In un cameo anche Emmanuelle Devos ("Sulle mie labbra"), moglie dell'amante della protagonista, ma il quadretto di cui è fugace interprete stride e non convince.

Bruni Tedeschi s'incammina sulla strada del film personale, abbozza una sorta di diario intimo con momenti di autobiografismo (para)morettiano, ma privo di narcisismi strategici: stilisticamente duttile, provando molte strade, il film riesce in più casi a cogliere il bersaglio disegnando sapidamente, soprattutto nelle scene familiari, siparietti di amarognola e divertita verità. Alcune lungaggini, divagazioni surreali non tutte riuscite, sparsi spunti grotteschi (la bara che non entra nell'aereo) per un debutto interessante, molto apprezzato in Francia, che sovrappone alla narrazione il vissuto dell'autrice e che in questo tentativo smaschera l'(unico) archetipo caratteriale - il proprio - al quale la Bruni Tedeschi sembra rifarsi nelle sue performance recitative. Forse il vero "morettismo" del film sta proprio in questo.

L’enigma Valeria Bruni Tedeschi, attrice dalle mille risorse espressive (non) usate in vista di un solo e (in)fallibile ruolo, quello della nevrotica nelle fauci della follia più o meno giocosa (confidiamo in François Ozon, che l’ha voluta nel suo nuovo 5X2, per un miglior impiego delle suddette doti), cosceneggiatrice e regista di un’opera curiosa negli spunti e imbarazzante nei risultati: una storia di (e/in/ri/)voluzione arricchita da echi surreal/freudiani a volte piacevolmente bizzarri (Marysa Borini, vera madre della regista, nella parte della madre di Federica) ma più spesso leccati e bamboleggianti (i terrificanti flashback finti e non, gli inserti d’animazione, le scene oniriche), adeguato complemento delle svampite evocazioni cinefile [Buñuel (i tarli cattolici), Allen (i tre fratelli alla finestra, come nell’ultima inquadratura di INTERIORS)]. Le sequenze più riuscite (le spietate conversazioni en famille) sono quelle in cui la neoautrice trascura le “trovate” per concentrarsi sulla direzione degli attori, dosando con mano felice i tempi della commedia. Il resto è celluloide luccicante e abborracciata, troppo seriosa per essere all’altezza del miglior kitsch. L’attrice non smentisce la regista: una prova sciatta, facilmente eclissata dall’eleganza ferita di Chiara Mastroianni.