TRAMA
La vita di Emmanuèle Bernheim, scrittrice e sceneggiatrice francese, precipita con una telefonata. Il padre ha avuto un ictus e al suo risveglio chiede alla figlia di aiutarlo a morire. A sostenerla in quella missione impossibile ci sono Pascale, la sorella trascurata, e Serge, il compagno discreto.
RECENSIONI
François Ozon fa un film all’anno, lo sappiamo e quasi lo diamo per scontato. Non lo è, soprattutto per un regista-sceneggiatore. Non lo è nemmeno nella Francia che il cinema lo sostiene e lo tutela: realizzare un film all’anno significa avere sempre garantite le condizioni produttive che consentiranno puntualmente l’avvio del progetto, altro presupposto tutt’altro che ovvio. Questa premessa per dire che il francese, al di là del talento di cineasta, ha anche quello di abile venditore di se stesso. E che il suo rimanere bankable è una condizione dalla quale dipende il suo lavoro e la sua indipendenza, un presupposto che il francese cura al pari del resto (scrittura, regia). Così, se abbraccia all’improvviso il film dossier (Grazie a Dio), lo fa affrontando un caso clamoroso che in Francia conoscono tutti e che gli garantisce, in patria, un milione di biglietti staccati. Due anni prima Frantz lo girava in bianco e nero non per nobili fini artistici, ma per prosaici motivi economici (la ricostruzione d’epoca, a colori, era economicamente proibitiva): grazie a una intelligente campagna promozionale, al plauso pressoché unanime della critica, alle 11 nomination al César, un possibile veleno per il botteghino (bianco e nero + ambientazione al tempo della prima guerra mondiale) diventa uno dei grandi successi della stagione in Francia. Altro esempio: Estate 85 - un coming of age anomalo che si collega più o meno consapevolmente (e comunque di fatto) a Chiamami col tuo nome - è stato girato in Normandia, a Le Tréport, località vacanziera di culto: un richiamo naturale per la gioventù francese e un conseguente, decisivo appoggio da parte delle istituzioni locali. Il risultato? Un ottimo riscontro al patrio box office (e c’era già la pandemia). Tutto questo per ribadire che Ozon è davvero una figura unica nel panorama cinematografico mondiale: riesce a fare i film che vuole (permettendosi il lusso di farsi passare degli sfizi più ostici per una vasta platea - Doppio amore -) non solo perché ne cura maniacalmente ogni aspetto (dalle locandine ai trailer), ma perché ha il senso pratico che il cinema richiede. E l’istinto del produttore illuminato che non trascura la fattibilità del progetto, ciò che si può concedere ad esso per farlo andare in porto (per questo è ammirato da cineasti potenzialmente lontani da lui come Bruno Dumont). Che poi è anche la ragione (lo dicevo da Cannes, dove questo film è stato presentato in concorso) per cui nei festival i suoi film difficilmente prendono premi: perché «le sue sono sempre piccole opere che vanno ad alimentare un opus complessivo che si afferma come il vero capolavoro del Nostro».
Riportando il discorso su È andato tutto bene, ci troviamo di fronte a un film complicato sulla carta perché incrocia l’eutanasia, tema per molto pubblico indigeribile (leggere qualche commento sotto il post promozionale di Facebook ci ricorda che, al di là delle nostre bolle, viviamo in un paese cattolico nel senso più acritico, ipocrita e ottuso del termine), soprattutto se tratto da un’esperienza vera, quella di Emmanuèle Bernheim, scrittrice e sceneggiatrice, amica personale del regista (e, in molti casi, anche sua collaboratrice), scomparsa nel 2017 [1]. Ecco che a traghettare questa storia “difficile” viene allora chiamata Sophie Marceau, beniamina del pubblico transalpino, assente dagli schermi da tre anni.
Si racconta di André che, sopravvissuto a un ictus, chiede alla figlia di poter morire. Ozon, sulla carta, sembra affrontare il tema importante e il conseguente film inchiesta, ma, come fa sempre, piega la fonte prescelta, il libro autobiografico di Bernheim, ai suoi scopi. Perché quella dell’eutanasia è solo la chiave di accesso a una complessa storia familiare disseminata di tracce, indizi, e strategiche omissioni che consentono, gradualmente, di modulare le rivelazioni, i risvolti, le implicazioni. Non ci troviamo, dunque, di fronte a un film di denuncia: se emergono, infatti, dilemmi etici e garbugli legali (in Francia l'unica via al suicidio assistito, per un malato non terminale, è espatriare), ciò avviene sull’intelaiatura di una saga familiare intinta in colori imprevedibilmente brillanti in cui il morituro è un salaud jusqu’a au bout, lo stronzo da una vita che, anche in questa occasione, porta avanti il suo egoistico discorso, senza tenere in alcun conto la situazione di difficoltà in cui ficca Emmanuèle e la sorella.
Il bello è che André, oltre a determinare le logiche familiari, detta anche il tono del film: che è drammatico fin quando il nostro è immobilizzato a letto dall’ictus, ma che diventa una caustica commedia man mano che il Nostro si riprende e pretende di dettar legge com’è abituato a fare, poiché le figlie - soggiogate dalla sua personalità e sapendo di esserlo (quasi grate masochisticamente di questo) - non possono, non riescono, non vogliono negargli nulla. Perché André è uno di quei tipi carismatici che si amano anche per i loro difetti e perché è chiaro da subito che se vuole morire è perché ama troppo la vita per permettersene una “diminuita”. Così tra dolorosi ricordi, istigazioni alla lite (le preferenze espresse dal padre all’una o all’altra figlia, solo per il gusto sadico di vederle competere: Ozon insiste sul punto alla fine, inventandosi il dettaglio per cui Emmanuèle riserva per sé la chiamata dalla Svizzera che comunica il decesso), dialoghi asfittici con la madre depressa (una sfinge di nome Charlotte Rampling [2]), deliziosi rimpalli di battute, si mettono in gioco traumi passati e perdoni già espressi: tutta la sofferenza che questa famiglia ha attraversato è oramai sublimata, viene al pettine solo per poterla liquidare definitivamente, senza struggimento, senza rancori, senza sciorinare debiti e crediti, compensando velocemente tutto. Perché questo non è il film sul fine-vita che ci si aspetta. Volevate una scena madre? Ozon ne fa a meno («Perché non l’hai lasciato?», «Perché lo amavo, stupida»: battuta non a caso inesistente nel libro). Volevate il dossier? Ozon ci dà qualcosa di più e di meglio: l'umanità e la vita (l’insistenza sul dettaglio quotidiano, così cara al regista, qui derivata direttamente dallo stile del libro, tutto behaviorismo, immagini folgoranti, frasi secche).
- Comment font les pauvres?
- Bah, ils attendent la mort.
- Les pauvres.
Soprattutto: volevate piangere? Ozon vi fa ridere, tanto che ci infila dentro persino la slapstick, come fossimo in una commedia hollywoodiana. E il problema socio-economico lo adombra con una battuta (la più bella e forte del film), cinica perché comprensiva del dramma altrui, ma nella consapevolezza di esserne fuori («Ma come fanno i poveri?»). Un film di acuti, progressivi spiazzamenti (un giallo che si chiama Grosse Merde), che evita la didascalica riflessione e che anche quando sembra adombrare una complessità metaforica, la fa abortire platealmente (il sandwich col morso paterno, messo in freezer a congelare, non diventa simbolo di nulla - non ce la fa, non ne ha la forza - e finisce per essere gettato nel cestino poche scene dopo). Un film sulla morte, certo, come Sotto la sabbia (non a caso scritto con Bernheim), come Il tempo che resta, come - già, non dimentichiamolo - Estate 85; una morte evocata da quel count-down implicito nelle didascalie che segnano il passare dei giorni. E che snocciola il suo cast come in un'ideale passerella (Eric Caravaca, Hanna Schygulla, fassbinderiano angelo della morte eccetera) e che, soprattutto, dà spazio a una luminosa Sophie Marceau, un filo blu che si snoda per tutto il film [3].
[1] Imperdibile il film di Alain Cavalier Être vivant et le savoir che documenta del tentativo di adattamento del regista di Tout s’est bien passé e del suo rapporto con la scrittrice oramai malata.
[2] Ozon, sorpreso dalla quasi totale assenza della madre dalla storia del libro, ha chiesto a Pascale, la sorella di Emmanuèle, di dargli delle informazioni. Ha così scoperto che si trattava di una importante scultrice, cosa di cui era totalmente all’oscuro, pur essendo amico intimo della figlia. Ritenendo che il libro fosse pieno di buchi e omissioni, ha deciso di intraprendere un lavoro di documentazione accurato, intervistando molti dei protagonisti della vicenda, per arricchire il racconto filmato.
[3] In occasione dell’incontro col regista (l’intervista è su Film Tv n. 2/2022) ho chiesto dell’insistenza del colore che è una costante degli abiti della protagonista, ma anche di alcuni ambienti come l’ospedale. Così il regista « Viene tutto da Emmanuèle: il blu era il suo colore preferito, se guarda le sue foto online vedrà quanto spesso è vestita con questo colore. Aggiungo che ho girato il film in estate ma la storia è ambientata in inverno, quindi mi ritornava meglio un'immagine virata sul blu, che evoca la stagione fredda».