TRAMA
Florida, 1919. Il Circo Medici, in bancarotta, ripone le ultime speranze nella nascita di un cucciolo di elefante indiano, che però, a causa delle sue ridicole ed enormi orecchie, non sembra essere l’attrazione su cui contavano. La sua prodigiosa capacità di volare cambierà le sorti del circo e dei suoi artisti.
RECENSIONI
“L'unica maniera di ottenere l'impossibile è pensare che sia possibile” - Alice Oltre lo Specchio (2017)
“Tutto è possibile... anche l'impossibile” - Il Ritorno di Mary Poppins (2018)
“Noi rendiamo possibile l'impossibile” - Dumbo (2019)
“È quasi divertente fare l'impossibile” - Walt Disney
Tre anni, tre blockbuster, tre remake/reboot/sequel, tre modi diversi di declinare uno dei mantra di Walt Disney in persona, una confessione ingenua e quasi vezzosa che Alice interpreta secondo la sua inappuntabile e paradossale logica, Mary trasforma in un impersonale inno all' immaginazione, mentre per V. A. Vandevere, il villain di Dumbo, diventa un arrogante attestazione di onnipotenza. Se a ciò si aggiunge che questo imprenditore visionario, creatore di Dreamland, altri non è se non una sfacciata e malvagia versione di Walt Disney, ci si rende conto che la battuta non è un semplice omaggio, ma la chiave di lettura del live action tratto dall'amatissimo Classico; si tratta, allo stesso tempo, dell'ammissione di una company da sempre iperprotettiva nei confronti della memoria del suo fondatore – come nell'ossequioso ritratto che Tom Hanks ne fece in Saving Mr. Banks – che, tra il serio e il faceto, comincia a riflette sul suo ruolo nello show businness, dove troneggia da matrona sempre più grassa che fagocita altre aziende, che allontana e riaccoglie i suoi talenti a seconda delle regole del mercato e dell'opinione pubblica. E' quello che accadde a Tim Burton, che iniziò la sua carriera come animatore in Disney, e trovò il successo solo in seguito al divorzio artistico con la stessa, quando negli anni '80 il suo stile fu giudicato “inanimabile”, poco disneyano, e il burtoniano non era ancora (di) moda.
Dopo Alice in Wonderland e Frankenweenie, la nuova Disney, ormai orfana di quel “Walt" anche nel suo stesso logo, gli affida l'aggiornamento di un'altra sua property, burtoniana fino al midollo sulla carta - e non solo per l'ambientazione circense – ovvero il freak tra i freak per eccellenza, il dolcissimo elefantino bullizzato per via delle enormi orecchie, Dumbo, e, con sottile autoironia, lo trasforma in una favola animalista, facendo del Classico solo il punto di partenza per raccontare altro, conservandone tutta la tenerezza e il suo sense of wonder. Mossa tanto rischiosa quanto furba, che spiazza fandom e critica che non sembrano volerne cogliere la nuova identità, giudicando inutile la nuova storyline (quando in casi di copia carbone come il remake de La Bella e la Bestia era proprio l'eccessiva fedeltà ad essere imputata come superflua) o limitandosi a sterili confronti di durata (l'originale durava poco più di un'ora, a fronte delle quasi due di quest'ultimo, da alcuni considerate eccessive per una storia semplice e compiuta come quella del '41), tra lagne nostalgiche e attacchi a un Burton decadente che non è più burtononiano, quando in altri contesti era proprio la sua estetica fine a se stessa ad essere attaccata. “Come fai fai non va mai bene”, verrebbe da dire a chi non vede nel nuovo Dumbo un autore che cerca di riappropriarsi della sua identità, o una azienda che, tra una auto- celebrazione e l'altra, si pone qualche dubbio e si interroga su se stessa, partendo dal passato per guardare al futuro, per aggiornare messaggi stantii (al giorno d'oggi un epilogo con gli animali che vissero felici e contenti tra le gabbie di un circo non sarebbe accettabile) e correggere errori imperdonabili (via gli stereotipati corvi ne(g)ri, ricordati solo dal colore della piuma che dà tanta sicurezza a Dumbo).
Così come tanta sicurezza devono dare a Burton i suoi attori feticcio, che ritornano sotto il suo tendone dopo le collaborazioni passate: Keaton incarna alla perfezione l'eccentricità di Vandevere divertendosi come ai tempi di Beetlejuice, DeVito, dopo Batman Returns e Big Fish, conclude la sua burtoniana trilogia del circo interpretando una versione diversa dello stesso personaggio, mentre una più sorridente Eva Green richiama la sua Miss Peregrine alle prese con altri bambini e animali speciali. La new entry Colin Farrell va a ingrossare la schiera dei vari Mr Banks, i padri da salvare, che il tempo, la vita, i dolori, hanno allontanato dai loro figli, bimbi già adulti, come ne Il Ritorno di Mary Poppins, troppo cresciuti, che credono però nell'umana magia della scienza e che arriveranno, loro si, a rendere possibile l'impossibile, attraverso il neonato cinema che troverà il suo posto nel nuovo circo privo di animali. Altri storici collaboratori sono la costumista Colleen Atwood e il compositore Danny Elfman che mescola i poetici cori di Ewdard Mani di Forbici alle atmosfere circensi de Il Grande e Potente Oz, riarrangiando in modo intelligente il tema del film originale nella scena di apertura, la sempre struggente Baby Mine e l'inebriante Pink Elephants on Parade, non più cantata ma sempre carica di tutta la sua fantasmagorica potenza visiva, dove l'animazione originale è praticamente ricalcata fotogramma per fotogramma. Ma è ovviamente il tenero Dumbo a rubare la scena, grazie una CGI ormai sempre più credibile, che prosegue lungo la strada inaugurata ne Il Libro della Giungla, umanizzando gli animali quel tanto che basta per farceli sentire simili, privandoli questa volta della parola e concentrandosi sui dettagli degli occhi e delle orecchie; il tutto affiancato da un sound design attento a enfatizzare la dolcezza e la comicità dell'elefantino. Il punto di vista da animale diventa umano, la favola si avvicina al documentario dove non è più la cicogna a portare i pargoli ma un naturalissimo parto, uomini avidi e violenti sostituisco le bisbetiche elefantesse, e il topolino Timoteo lascia il posto a Milly e Joe e ai loro esperimenti scientifici.
Ma la magia e il mistero restano; quello di cui Vandevere, novello Prometeo, vuole appropriarsi per farne dono all'umanità, non per avidità o smania di potere, ma per soddisfazione personale. Del resto anche Walt Disney voleva realizzare film di successo non per arricchirsi, ma per poter finanziare altri progetti, spesso contraddicendo anche le sue più buone intenzioni. Helen Aberson e il suo allora marito Harold Pearl gli vendettero i diritti di Dumbo per soli mille dollari. Pare che la scrittrice fosse stata invitata negli studi come consulente per qualche giorno, ma il suo nome non figura nei libri paga. Secondo il figlio, ritornò piuttosto scontenta dai meeting a causa delle numerose variazioni introdotte e ancor più quando nel 1986, scaduti i diritti di copyright, il suo nome scomparve dalle riedizioni del libro (nel film resta sempre accreditata). Se il carattere battagliero di P.L. Travers ha permesso a una storia molto simile – raccontata in Saving Mr. Banks – di passare alla Storia, quella di Aberson rischia di essere dimenticata. Walt, la Disney e Vandevere si sono impossessati di Dumbo. Fortuna che, almeno Burton, l'outsider di Burbank, il freaktra i freak, gli ha restituito la libertà.
Ci sono due modi per approcciare il nuovo Dumbo: andare vedere un film; andare a vedere un film di Tim Burton. Nel primo c’è un elefantino che tutti prendono in giro per le orecchie grandi, nel secondo c’è un regista che non va più di moda nemmeno prendere in giro. Si può prendere in considerazione un film a prescindere dal suo autore? A volte, si deve. Se il suo autore ha esaurito la vena autoriale una vita fa e se il film in questione è emanazione di un meccanismo produttivo che sovrasta ogni possibile –figuriamoci impossibile- autorialità inglobandola in un proprio discorso così forte, così autoriferito da diventare ormai metadiscorso: vedere il nuovo Dumbo è prima di tutto vedere un film Disney. Il disneyano assorbe (o forse accoglie?) il burtoniano e se quest’ultimo è stile ormai quasi vintage, il primo è realtà presente. Ingenuamente si è vociferato della major che mette in scena la spietatezza del grande produttore, disposto a tutto pur di far spettacolo, in termini di paradosso, di furberia subito scoperta, come se alla Disney lavorassero degli ingenui così ingenui da credere tali anche gli spettatori ordierni.
Dimenticando cenni metatestuali già presenti in altri lavori recenti: si pensi a Ralph Spaccainternet (2018) che non solo è un esempio di automoralizzazione progressiva in cui il protagonista comprende pian piano i propri errori e sconfigge il virus di se stesso superandoli, mentre ci viene spiegato il suo progredire quasi chiedendo la nostra comprensione più che facendoci comprendere tale morale, ma è anche un esempio di meta-ironia sul proprio stesso universo finzionale che esplode nel mettere in scena le principesse Disney, ciascuna pescata dal proprio film e piazzata in Ralph come in un salotto in cui il meme internettiamo diventa scena filmica, ampliando il dicorso film-internet-gaming in quello che è un gioco espanso, una rottura dello schermo -del cinema e del pc- per incontrarsi a metà strada, nel caotico, inafferrabile, presente “aumentato”.
Dunque no, il mitico Michael Keaton nei panni non dichiarati, ma evidenti, di Walt Disney in persona che si fa villain non è un contentino morale dato a bere agli sciocchi che altri meno sciocchi non bevono, ma è la predica dal pulpito sbagliato che sa di esserlo e non si esime dall’esibirlo per una ragione pratica molto semplice: perché può. La Disney può ormai la Pixar, può la Marvel, può la Lucas Film, ora può anche la Fox e può perfino prendere il proprio stesso fondatore morto e sepolto e demonizzarlo in keatoniane vesti. Tale è, con circa 60 miliardi di dollari di fatturato, la Walt Disney Company, multinazionale con sede a Burbank, cittadina californiana a pochi da Los Angeles dove nel 1958 nacque Tim Burton.
Del malinconico Tim, del suo mondo vulnerabile in cui disadattamento e tenerezza si mescolano nel grigiore variopinto della tavolozza horror che si fa poesia fragile, della parabola che lo ha visto ragazzo schivo diventare talento, mettere in scena i propri sogni e i propri incubi, farsi “burtoniano” per poi merchandisizzarsi, dunque esaurire la vena creativa dopo aver toccato il fondo con la Deliranza, abbiamo parlato al tempo di Miss Peregrine. Cos’altro si può ancora dire di Burton nel 2019? Forse, ancora qualcosa. Diciamo, per esempio, che non basta il circo per tornare a Big Fish e, anche se bastasse, perché tornarci? Esistono autori che ci hanno dato tutto ciò che potevano, è triste rinnegare ciò che di loro abbiamo amato, è assurdo pretendere di vederli ripetersi, come se chiedessimo un eterno bis per il gusto di rivedere il già noto, come se entrassimo in un circo con un elefante che vola e volessimo vederlo continuamente ripetere il suo numero, perché ci piace così, perché in fondo ce lo deve: è lì per il nostro diletto. Diciamo ancora che il Burton che, ancora ragazzo, abbandonava la Disney al tempo di Red e Toby (1981)per cercare un proprio linguaggio personale, è tornato alla Disney dopo averlo perso. Troppo facile dire che il suo Dumbo non spicca il volo: vola dove può, come può, nel recinto dedicato, un enorme, sfavillante recinto. Cosa resta, allora, di Burton, che non ha fatto il Dumbo dark depresso e tenero in un modo cattivo ma pieno di amici freakkettoni che avremmo tanto voluto (e se ci pensiamo bene è quello che in fondo ha comunque fatto)? Una cosa, su tutte; una cosa trascurata, ignorata, perfino snobbata senza la quale i film semplicemente non si fanno: i costumi. Lasciata alle spalle Bonham Carter, lasciato a casa l’amico Johnny Depp e tutto il suo makeup, Tim si è portato dietro l’inseparabile Colleen Atwood. Dagli anni 90 in cui intrecciava cinghie di pelle e latex borchiato sul corpo di Edward Mani di Forbice, eccola qui che oggi posa una piuma sulla scarpette di Eva Green. La piuma magica, conferita dai corvi da ghetto al Dumbo delle origini, ossia nient’altro che un trucco mentale, un amuleto per aver fiducia in se stessi, qui diventa oggetto di osservazione sperimentale, applicazione del metodo scientifico, leitmotiv decorativo e dettaglio che dialoga con la trama in un insieme di circa duemila costumi di scena (fra cui quelli dello stesso dumbo, reali, poi digitalizzati). La prima Guerra Mondiale è finita, a casa si trascinano i sopravvissuti, fra cui Colin Farrell, che devono fare i conti con l’orrore alle spalle e l’incertezza davanti. Eppure l’atmosfera ricorda una Parigi fin de siècle, fra Art Nouveau e scientismo tecnologico che preludia alle “magnifiche sorti e progressive” dell’umanità, proprio quelle appena mandate in fumo da un conflitto mondiale. Le piume della belle époque si travasano nel nascente charleston e sfuggono al nostro occhio distratto, ma non a quello curioso di un elefantino che non parla, ma osserva. E il gioco è fatto. Dumbo vola a cavallo fra due guerre del secolo scorso, non più in veste propagandistica, come nel film d’animazione del ’41 in cui ricalcava le sembianze di un cacciabombardiere e diventava funzionale alla propaganda bellica a cui Disney si prestava, ma verso una libertà tutta odierna, approvata dalla PETA. E il 1919 è un 2019 mascherato che cerca di trovare respiro nell’ingombro soffocante di produzione, da un lato, e pubblico parlante dall’altro. L’unica soluzione è fuggire. Con Atwood e Danny Elfman, con la femme fatale Eva Green che non è più fatale, con Burton che non è più burtoniano, in fuga da un Keaton che tanto ha già preso il volo con Birdman, verso un circo senza animali, in un film senza animali. Retorico? Deludente? Noioso? Moralista? Può darsi. Ma con una malinconia vivida, con maestranze di prim’ordine, con una solidarietà fra reietti che non vogliono vincere o salvarsi, ma fare la cosa giusta, salvare qualcun altro, salvare un po’ il presente che cammina sul filo di una realtà drammaticamente circense. Con la tenerezza dei due innocenti e sciocchi occhi blu di un elefantino che sembra vero anche se non lo è. Con quel trucco da pagliaccio che fa ancora più tenerezza, anche se siamo troppo distratti dall’assenza di Burton per accorgercene. Senza il topo Timoteo, purtroppo (l’assenza dei Tim si fa sempre più ingombrante). Ma con i rosa elefanti.