Drammatico, Recensione

DUE VOLTE LEI

Titolo OriginaleLemming
NazioneFrancia
Anno Produzione2005
Durata129'
Fotografia

TRAMA

La vita dei giovani sposi Alain e Bénédicte muta drasticamente la sera in cui hanno a cena Richard, il capo di Alain, e sua moglie Alice.

RECENSIONI

Alain, ingegnere domotico, lavora a una telecamera mobile telecomandata, capace di rintracciare velocemente la causa di ogni problema casalingo: il giovane opera in una casa-laboratorio linda e asettica, tutta specchi e trasparenze, identica alla villetta in cui vive con Bénédicte e non troppo diversa dalla lussuosa residenza di Richard. In questo universo di pacifico candore s'insinua l'elemento perturbante, Alice (il nome carrolliano non è casuale), cui spetta il compito di (di)mostrare quanta ipocrisia ci sia dietro la superficie del quotidiano e quale inconfessato bisogno d'irrazionalità turbi anche la più rassicurante/sconfortante delle coppie modello. Al percorso di morte, rinascita e trasfigurazione della stagionata femme fatale (una Rampling impeccabile, come il resto del cast, ma ormai abbonata al ruolo) fa eco quello del lemming, roditore scandinavo misteriosamente materializzatosi nelle tubature della casa di Alain e Bénédicte, catalizzatore dei conflitti fra i giovani coniugi (lei lo cura come il figlio che vorrebbe, lui si fa mordere e lo lascia scappare) e silenzioso araldo dello scioglimento della vicenda. Lemming (lasciamo perdere il titolo italiano, così smaccatamente hitchcockiano) definisce da subito con grande chiarezza il campo della propria indagine, con le due coppie (i giovani inquieti e gli adulti dai segreti inconfessabili) che si affrontano in un ring "da camera" cui solo sporadicamente si sostituisce il brivido inafferrabile dell'en plein air (il cottage sul lago brumoso). Il regista tenta d'innestare i visceri del racconto horror (Alice come non morta alla Poe, se non alla Lynch) ed espressionista (la passeggiata notturna di Bénédicte) sul corpo (quasi defunto, ma ancora vibrante) della commedia borghese alla Chabrol, sempre sospesa fra tragedia e thriller. Il problema è che, per gestire un simile pot-pourri, servirebbero il rigore e la fantasia di Cédric Kahn (non a caso il film richiama, in più punti, il lunare, sibillino, magnifico Feux Rouges), mentre la maniera accademica con cui Moll ricalca i suoi modelli riesce solo a creare un'opera imbalsamata quanto prolissa: le conversazioni vorrebbero avere tutta la profondità del banale e suonano artefatte, i personaggi, volutamente vaghi e sfumati, risultano piatti se non caricaturali (Richard e le sue puttane), la svolta sovrannaturale non ispira invenzioni visive irresistibili (l'invasione dei lemming non è male, ma è un po' pochino, in due ore e passa di film) e si accompagna troppo spesso a glosse stucchevoli (i dialoghi in ospedale, l'apparizione di Alice), il misterioso indizio del lemming viene "spiegato" dalla voce over (più superflua che mai) in un finale che tenta di potenziarne la valenza grottesca e non fa che rendere definitivamente ridicola una vecchia storia di corna intrecciate. Occorre lucidità, rigore, metodo anche (anzi, soprattutto) nella follia: il nonsense non può essere un alibi, semmai un'aggravante.

Già con il mediocre Harry un amico vero Moll aveva affrontato il tema della coppia che, perfetta in superficie, patisce una minaccia che solo in apparenza è esterna ma che in realtà trova nelle insoddisfazioni del piatto ménage borghese cui è costretta il suo humus naturale. Alza il tiro il regista con questo Lemming virando sulla commistione tra piano reale e onirico, incrociando le strade percorse da Lynch, non disdegnando la costruzione della tensione secondo il vangelo hitchcockiano, non dimenticando neanche l’eyeswideshut kubrickiano (il doppio sogno che manifesta la crisi tra i protagonisti) e certe claustrofobie del Polanski che fu. Ambizioni tante, per un film che gioca sull’inquietudine [il perturbante è Alice o il lemming [1], comunque un animale che ci si ritrova in casa e si suicida – il roditore si rifiuta di mangiare e, fuggito, verrà ritrovato esanime e buttato nella spazzatura -] ma che rimane registicamente accidioso affidandosi alle ottime interpretazioni e al carisma della Rampling (in ruoli di questa fatta si muove con regale pilota automatico) e che nella parte iniziale - prima che i segni comincino ad addensarsi, le spiegazioni e le didascalie a divenire inutilmente urgenti - risulta di sospensione davvero efficace. La sonda scruta nelle viscere della casa e il suo fondo limaccioso, le orride frustrazioni incrostano le tubature, emerge prepotentemente, inevitabilmente, l’irrazionale a sconvolgere le certezze costruite ad arte. E sarà un incidente a determinare il detour narrativo (cfr. Luci nella notte di Kahn) e la confusione dei piani. Alain, uomo quasi realizzato e maniacale nel suo tenere la vita sotto controllo, deve fronteggiare una serie di eventi inclassificabili (il sovrapporsi dell’identità della suicida a quella della moglie: il fantasma dell’eros che si risveglia?) che sconvolgono il suo calcolato programma esistenziale in cui la passione è stata chiusa a chiave in un cassetto. A questo punto distinguere cosa accade davvero, cosa rimane a livello solo mentale è il giochino a cui lo spettatore è chiamato: c’è un tradimento? C’è un omicidio? Alain riceve la chiave dell’appartamento di Richard dalla defunta Alice (esplicita citazione di Mulholland drive) ma a quel punto dove arrivi la deriva allucinatoria diventa paradossalmente chiaro, il risveglio inconsapevole di Bénédicte separando nettamente lo scomparto realistico da quello onirico; il rifiorire finale della voce over, che era apparsa per un attimo nell’incipit, riconduce tutto su un solido livello di concretezza: Richard si è davvero suicidato, la giovane coppia, avuta una visione chiara del proprio futuro, torna sotto il fragile tetto delle apparenze, il cataclisma è solo rimandato. Altri interrogativi rimangono, poiché le possibilità interpretative proliferano (la coppia anziana non è che una copia ingiallita dei due protagonisti, la foto di Alice – Strade perdute? - davanti alla casa in montagna è un oscuro presagio etc etc), ma in fondo poco rilevano. Scritto dallo stesso Moll e da Marchand (regista del dimenticabile Chi ha ucciso Bambi? ) Due volte lei è film dalla fitta tessitura citazionistica (aggiungerei a quelle già ricordate Cortesie per gli ospiti – la coppia matura che corrompe quella più giovane - di Mc Ewan che, sceneggiato da Pinter, fu portato sullo schermo da Schrader e certo teatro dell’assurdo - penso ad Albee, soprattutto -) che mantiene una discreta tensione pur incartandosi nei suoi rimandi, non riuscendo a evitare certe pastoie psicanalitiche in saldo e una semplicistica lettura metaforica.