Drammatico

DOLLS

Titolo OriginaleDolls
NazioneGiappone
Anno Produzione2002
Durata113'
Sceneggiatura
Scenografia

TRAMA

Tre storie d’amore infelice si incontrano attraverso le quattro stagioni. Due vagabondi legati da una corda rossa, erano stati una coppia felice; un anziano capo yakuza torna nei giardini dove trent’anni prima era solito pranzare con la fidanzata; uno sfegatato fan di una cantante pop si acceca per incontrarla, sulla spiaggia dove lei, sfigurata, è ferma a fissare il mare.

RECENSIONI

Il cortigiano Umegawa implora l'amante Chubei di smettere di compiere una follia per amor suo, decidono di scappare insieme, nella neve, a fatica, l'uno aggrappato all'altra, si trascinano. Sono marionette, bambole del teatro del bunraku, mosse da uomini (tre) mettono in scena, sono anzi messe sulla sena dai manovratori e guidate dalla voce del narratore, la disperazione, la follia, l'amore, il potere. Luogo della razionalità, della mediazione: da fatti possibili e reali al testo poetico di, in questo caso, Chikamatsu Monzaemon in "Meido no Hikyaku" ("I Messi dell'Inferno") alla rappresentazione plurima del teatro nazionale di Tokyo nell'apertura di "Dolls". Una sintesi stilistica e tematica dunque in cui l'atto, l'azione, è guidato dalla voce sovrastante di chi il gioco lo dirige conoscendolo dall'inizio. Astrazione contro concentrazione: le stesse  marionette guarderanno, con una delle interpellazioni più inquietanti mai viste, sorridenti e curiose, le tre vicende che Kitano innesta sul tema dell'amore.
La natura scorre ed appare ovvia e splendente attorniando i protagonisti, uomini e donne il cui vettore vitale è giunto ad una frattura: la follia dell'amata, l'approssimarsi della morte, l'allontanamento dell'idolo. Innescato questo percorso il mondo si distanzia, partecipe. L'evento umano, il sentimento che vuole mostrarsi che cerca il proprio compimento viene accolto nelle braccia di una natura benevola ed indifferente, un parco cittadino, le montagne innevate, un viale cosparso di fiori di ciliegio, il mare. Lontane sono le stilizzazioni kitaniane che partivano dalla carne, dalla fisicità scomposta (vitalità-riso/morte), la prospettiva si ribalta come suggeriscono le maschere che si abbracciano in attesa dello spettacolo, dal concetto che è e si mostra plurimo e variegato si riconducono i frammenti esistenziali al complesso estetico sentimentale della rappresentazione. L'amore, dimenticato, ricordato, inseguito è il laccio che porta i personaggi indifesi e di pezza quasi a legarsi nuovamente alla vita, all'intimità: si abbandonano il lavoro, gli affari, il mondo cittadino per captare il fondo della comune umanità. Recupero ultimo ed esiziale, ulteriore "ultima impresa" del cinema di Kitano, l'accecante visione del sentimento non lascia che pochi istanti prima della morte od un eterno vagare accecati, fuori dal mondo, appesi per un filo. E cosa comunica la forma di questa sparizione dall'ambiente umano se non la natura? il viaggio perpetuo, attraverso il tempo e le stagioni dei "vagabondi del filo rosso" isolati nella follia e nella neve, la foglia d'acero che si posa sull'acqua come sublime ellissi del foro di proiettile e del sangue dell'anziano capo yakuza, il sangue sull'asfalto lavato via dall'acqua del fan cieco.
Ancora una volta lo stile del regista giapponese trova le forme in cui sostanziarsi mutandole, ma uguale rimane lo splendore opprimente di un mondo in cui l'uomo che improvvisamente sente è estraneo e da questo punto di vista viene mostrato (i carrelli laterali, la panoramica non sul mare ma dall'acqua verso la spiaggia).
Gli stupendi abiti e costumi sono di Yohji Yamamoto. Splendore del tremendo.

Ciechi per amore

Marionette dell'amore, di un testo già scritto, di burattinai e professionisti del lamento. Gli amanti dell'amour-fou vagano su questa Terra legati da un cordone ombelicale, da un fil-rouge che incespica e provoca lo stupore dei comuni mortali. Alieni in un mondo che misconosce l'irrazionalità dettata dal cuore, trascinano il dolore fra i colori (e i simbolismi) delle quattro stagioni, fino all'oblio, al precipizio che li congelerà nel vuoto, senza far loro toccare (il) fondo. Kitano interseca tre racconti d'amore, follia e rimorso, crea un ponte fra la tradizione (in apertura "I messi per l'inferno" di Monzaemon Chikamatsu, cui s'ispira) e la modernità degli yakuza e delle popstar. Solo l'episodio d'apertura, nel suo estremismo emblematico, dolcemente annegato nei colori, allarga lo sguardo e l'interpretazione. L'insipida sobrietà degli altri due, in assenza d'afflato tragico e onirismi, offre il fianco ai due punti deboli dell'opera: la mancanza di compartecipazione e l'ostentazione "artistica". Quando non è occupato a comporre un "bel quadro", non è dato sapere se Kitano prenda o meno le distanze dagli amori impossibili che disegna: restano le ellissi e i dilungamenti ingiustificati. L'elaborato montaggio parallelo, però, rilancia il nastro rosso, acchiappa al lazzo i due vagabondi e percorre con loro il cammino di una vita spesa fra il giallo della follia e il rosso della passione mista a violenza. Come gli amanti dimenticano il motivo del dolore e si abbandonano all'insania, così lo spettatore può accantonare il senso dello stolto feticismo del fan, il non-senso del ragazzo sulla sedia a rotelle, e riprendere a pitturare un pannello con ciliegi in fiore, farfalle con le ali spezzate, silenzi compassionevoli, lacrime muliebri e rimpianti virili. La crudeltà di uno sparo è "off" perché fa più male l'eterna stretta al cuore. Si è ciechi per amore e l'amore rende ciechi, fragili, mortali: per ogni Eros ritrovato, Thanatos è in agguato.

L’amore, la bellezza, il sacrificio

tabi ni yande
yume wa kareno wo
kakemegeru

Bashō

[Ammalandosi, in viaggio,
i sogni vagano, sospesi,
in una landa desolata]

Pensare a Takeshi Kitano solo e semplicemente come a un regista di cinema significa in un qualche modo ridurne la portata estetica decalibrando il suo orizzonte artistico misurato su forme di una sensibilità che sono espressione di una lontananza (non solo geografica) incolmabile. Il cinema di Kitano (tutto il suo cinema da Violent Cop all’ultimo, forse non riuscito pienamente, ma a tratti davvero sorprendente, Zatoichi, finanche nelle sue prove più spiazzanti come Getting Any?) si fa interprete di un pensiero che è già arte per il fatto stesso di essere concepito (di già) come forma artistica, come immagine “eventuale” già in qualche maniera cinematografica prima della sua messa in opera filmica. Kitano è colui che riesce a dipingere cinematograficamente davvero una cultura giapponese “altra”, e tuttavia la stessa, che riesce a prendere le distanze dalla limpida trasparenza di Ozu, dal poetico nitore di Mizoguchi, che riesce a utilizzare gli elementi scardinanti del grottesco e del surreale di certo cinema nipponico da Kurosawa a Imamura (a Sabu), che evita i fin troppo frequenti intrappolamenti nella gabbia dei generi (pensiamo ai pur grandissimi Kyoshi Kurosawa, Miike, Oshii e l’osannato Nakata di Ringu) facendo lavorare il genere (il noir, lo yakuza movie, principalmente) in funzione della propria estetica e non viceversa. Un cinema che in sostanza si muove sinuosamente, straordinariamente, tra la sublime compiutezza visiva di Nagisa Oshima (di cui, tra l’altro, ha interpretato con fine perizia attoriale il bellissimo Tabù-Gohatto) e la violenza epifanica, improvvisa e incontrollabile di Seijun Suzuki.
Dolls si apre (e si chiude) tautologicamente con le “bambole” del bunraku, universo metaforicamente esemplare che nel teatralizzare, nel mettere in forma le vicende dell’umano sentire, si annuncia come destino epocale della condizione umana. La vicenda è quella descritta nell’opera Meido no Hikyaku (I messi dell’inferno) di Chikamatsu Monzaemon: il cortigiano Umegawa chiede all’amante Chubei di non compiere un gesto folle per amor suo, promettendole di fuggire insieme, nella neve, verso l’ignoto che li attende. Il tema è quello dell’amore infelice poiché irrealizzabile, argomento vecchio come il mondo e caro alle culture di tutte le latitudini.
Dolls racconta visivamente l’infelicità dell’amore, (s)ragiona su amore e follia proprio perché amore è follia e solo follia, amore è differenza assoluta, è altro da altro. L’amore rende l’uomo pazzo, ma di una pazzia in grado di liberarlo dai lacci della grigia quotidianità (non è un caso che Kitano lavori alacremente sulla connotazione cromatica, restituendo un’atmosfera di dolcissima, lacerante malinconia), una pazzia che fa vedere le cose con altri occhi, come il fan della cantante pop che si acceca non per non vederla più ma per continuare a vederla per sempre, una pazzia che inaugura altre forme di temporalità che non hanno più nulla a che fare con il flusso routinizzato e routinizzante della vita di tutti i giorni, che si apre su un tempo sospeso, immateriale, trasognato per cui trent’anni possono avere lo stesso valore dell’eternità dell’istante di uno sguardo, in cui lo stillicidio sempiternamente uguale del vivere quotidiano, delle quattro stagioni, delle tre età, si infrange nel piccolo miracolo inatteso dell’annunciarsi dell’amore. La follia dell’amore rende schiavi e liberi contemporaneamente poiché si rompono anche i nessi logico-linguistici abituali e dunque anche le parole si svuotano di senso per prepararsi ad accogliere significati altri, inediti, reconditi. L’amore dunque anche come avventura semantica, come produzione o avvento di un nuovo senso; l’amore come palingenesi semiotica. L’amore soprattutto come viaggio attraverso la follia, come i “viandanti del filo rosso” che si sacrificano al loro destino di amore e di morte, proprio come gli eterni e infelici amanti eros e thanatos, nell’estremo sacrificio di credere o di illudersi di credere che ciò che si compie, si compie ineluttabilmente per un qualcosa di destinalmente già stabilito ab aeterno nei nostri cuori, come l’ineludibilità del testo già scritto delle opere del bunraku.
Tutto ciò avviene nella sospensione “estatica” del cinema di Kitano, nelle tre storie che si legano, si sciolgono, si appartengono come gli amanti Umegawa e Chubei, si abbandonano al vento come le rossissime foglie autunnali, si annunciano nella struggente bellezza dello sbocciare di un fiore di ciliegio, nel sorprendente evenire di un haiku.