Biografico, Commedia, Netflix

DOLEMITE IS MY NAME

TRAMA

Los Angeles, 1970: Rudy Ray Moore è un artista in difficoltà con un mediocre passato, che lavora in un negozio di dischi, cercando di mettere in onda la sua musica nella stazione radio del negozio. Di notte lavora come dj nel locale di Ben Taylor e del suo gruppo musicale. Quando chiede al proprietario del club di poter fare un po’ di cabaret tra un concerto e l’altro, il proprietario rifiuta. Un giorno, nel negozio di dischi, entra un senzatetto che racconta storie in rima: in uno di questi racconti si parla di “Dolemite”. Così a Moore viene l’idea di inventare un personaggio di nome Dolemite e raccontarlo dal palco del club dove lavora in attesa di miglior fortuna.

RECENSIONI

Dolemite Is My Name – che ha sfiorato la stagione dei premi con due nomination ai Golden Globe, restando tuttavia poi abbastanza a sorpresa escluso dagli Oscar – racconta molto più di quanto possa sembrare della blaxploitation e del black power. Prendiamo ad esempio la scena in cui il protagonista Rudy Ray Moore (interpretato da Eddie Murphy, all'ennesima rinascita), cantante fallito diventato stand-up comedian underground, incontra un produttore cinematografico nella speranza di poter recitare nel suo primo lungometraggio. Siamo a metà degli anni Settanta, e le pareti dell'ufficio del producer sono tappezzate di poster di film di successo come Blacula (1972) e Donne in catene (1973). Considerando il grande riscontro popolare di Moore, la storia sembra già scritta. Non andrà come previsto: il mercato si sta spostando verso opere più “edificanti” e conciliate, come Cornbread, Earl and Me (1975), su un ragazzino che esce dal ghetto, e per una vicenda incentrata su un pappone proprietario di night club amante delle donne e del kung-fu sembra proprio non esserci più spazio. A questo punto Moore farà da sé, autofinanziando e autoproducendo la sua pellicola Dolemite (1975), tanto sgangherata quanto di culto (e capace di generare una saga lunga 11 film). Come disse l'attrice Pam Grier in un'intervista rilasciata nel 2002, «Gli stereotipi che ci riguardano sono spesso ciò che abbiamo perpetuato noi stessi. Ho cercato di spezzarli, ma ne ho anche creati alcuni»: Ray Moore alimenta i cliché sugli afroamericani per ottenere un risultato, come del resto ha fatto lo stesso Eddie Murphy all'inizio della sua carriera al Saturday Night Live e nell'oltraggiosa stand-up Delirious (1983). Dolemite Is My Name, sotto la sua scorza ariosa e giocosa, racconta quindi la tensione tra rappresentazione e sfruttamento di quel periodo, in cui gli artisti di colore raggiunsero una nuova e costante visibilità, diventando eroi di una intera generazione anche parodiando e cavalcando i luoghi comuni da abbattere.

C'erano i polizieschi alla Shaft (1971), i thriller alla Sweet Sweetback's Baadasssss Song (1971) e in generale i “film-guerrilla” da combattimento in cui si affrontava a muso duro la questione. E c'erano anche le commedie alla Dolemite, il cui unico obiettivo era far ridere in modo diverso dai bianchi. Anche in questo caso viene in soccorso una sequenza significativa del film di Craig Brewer, quella in cui Ray va a vedere Jack Lemmon e Walter Matthau nel remake di Prima pagina (1974), si stranisce considerando quanto sia incredibilmente poco divertente, e si gira guardando il fascio di luce proveniente dalla cabina di proiezione, rapito dalla misteriosa origine del cinema. Perché in fondo Dolemite Is My Name racconta di un idiot savant, di un uomo senza qualità che si emoziona quando lo show prende forma e viene messo in scena, come farebbero Edward D. Wood Jr. (e non è un caso che la sceneggiatura sia stata scritta da Scott Alexander e Larry Karaszewski, già autori proprio dell'Ed Wood di Tim Burton) o il mai dimenticato Tommy Wiseau di The Room. Come accade con Wood e Wiseau (in The Disaster Artist di James Franco), anche qui il protagonista non viene mai deriso; semmai si potrebbe valutare come venga eccessivamente coccolato, con l'eliminazione di qualsiasi possibile controversia – ma Ray era consapevole del suo statuto di outsider, considerato dall'opinione pubblica più come una macchietta che come un reale artista? – nel nome di una celebrazione fresca, efficace, divertente, che sovverte la solennità e il respiro calligrafico del biopic tradizionale. Un film poco interessato alla ricostruzione al dettaglio, e molto all'idea di come la persistenza e la sicurezza di sé prima o poi portino a dei risultati. Senza essere dei leader dei diritti civili alla Malcolm X, e neanche dei musicisti di talento alla James Brown; essendo semplicemente se stessi, senza paura e con la giusta dose di incoscienza.