TRAMA
“In una periferia sospesa tra metropoli e natura selvaggia, dove l’unica legge sembra essere quella del più forte, Marcello è un uomo piccolo e mite che divide le sue giornate tra il lavoro nel suo modesto salone di toelettatura per cani, l’amore per la figlia Alida, e un ambiguo rapporto di sudditanza con Simoncino, un ex pugile che terrorizza l’intero quartiere. Dopo l’ennesima sopraffazione, deciso a riaffermare la propria dignità, Marcello immaginerà una vendetta dall’esito inaspettato” (dal pressbook).
RECENSIONI
"Virtuosità discreta": coniata da Ginette Vincendeau in Jean-Pierre Melville: An American in Paris (BFI, 2003) per descrivere lo stile messo a punto da Jean-Pierre Melville in Tutte le ore feriscono, l'ultima uccide!, questa formula paradossale è stata la prima cosa che mi è venuta in mente durante la visione di Dogman. Perché? Semplicemente per questo motivo: dell'ultimo film di Garrone, l'aspetto che mi ha colpito in modo impressionante è il modo in cui è girato. Anziché svilupparsi attraverso sequenze di inquadrature brevi e tambureggianti, Dogman si dipana attraverso inquadrature lunghe e avvolgenti che tendono a fagocitare i blocchi narrativi messi in scena. Ma, e questa è la ragione che mi ha indotto a ricordare l'espressione di Vincendeau, non si tratta di un artificio stilistico chiassoso e plateale, si tratta al contrario di un'impronta estetica trattenuta, non esibita, che si legge in filigrana. Detto altrimenti, non ci si accorge immediatamente di questa "tendenza al piano sequenza" (la chiamo così per comodità, anche se fortemente inesatta), ma la si apprezza solo in un secondo momento, a scoppio ritardato. Ebbene, trovo che questa proprietà latente dell'arrangiamento visivo di Dogman sia un indicatore estremamente preciso della conquistata maturità stilistica del quasi cinquantenne Matteo Garrone.
Che Garrone sia innanzitutto uno stilista mi pare non vi sia dubbio alcuno (anche se sono praticamente certo che rifiuterebbe categoricamente questa definizione): il suo cinema pullula di momenti visivi in cui è la composizione dell'inquadratura a imporsi come elemento determinante. Non mette conto inanellare esempi per corroborare questo dato di fatto, basti ricordare il meraviglioso incipit di Estate romana, alcune sequenze a casaccio di L'imbalsamatore, l'inizio a ultravioletti di Gomorra, il fiabesco finale di Reality e, ovviamente uno tra i tanti preziosismi visivi di Il racconto dei racconti. Non occorre fare molta fatica, insomma, per chiamare a raccolta i frequentissimi casi in cui l'impronta visiva di Garrone emerge con prepotenza. Anche in un film in qualche modo privativo come Primo amore, come si osserva qui, si susseguono palesi virtuosismi ottici (in questo caso con l’espediente del fuori fuoco) che mettono incontrovertibilmente in rilievo il lavoro di messa in quadro.
È proprio con Dogman che questa propensione dimostrativa cessa di essere l'elemento stilistico preponderante. C'è un solo momento, in occasione dell'arrivo in carcere di Marcello (Marcello Fonte), durante il quale si percepisce ancora un residuo esibizionistico nella messa in scena: girata in piano sequenza (naturalmente, verrebbe da aggiungere), la sua camminata lungo i corridoi della prigione è ripresa con un sinuoso movimento di macchina che lo accompagna e lo abbandona ripetutamente per dipingere, con pochi e incisivi tratti, il terribile microcosmo carcerario. Si tratta probabilmente della sola inquadratura dell'intero film che cede alla tentazione dello sfarzosità visiva, peraltro padroneggiata in modo strepitoso. Fatta dunque eccezione per questa prova di destrezza registica o pezzo di bravura che dir si voglia, in Dogman non si troverà più traccia di stile esibito, il film dispiegando al contrario uno sguardo deliberatamente confuso e colluso con la situazione rappresentata (questa clip lo mostra paradigmaticamente: un totale fisso e una breve soggettiva marcata, ossia “sporcata” dalla condizione percettiva del protagonista, raffigurano con esemplare economia di mezzi il lavoro di Marcello e una delle tante prepotenze commesse impunemente da Simone/Edoardo Pesce).
Siamo in chiaro ambito western, impossibile sbagliarsi. Un luogo che sembra uno dei tanti villaggi che costellano il genere (si pensi alla prima apparizione di questo microcosmo col vento che alza la polvere e con gli esercizi tutti addossati sullo stesso lato): ci mancano solo i rotolacampo e i cavalli e l'armamentario iconografico del western sarebbe praticamente completo. Ed è assolutamente vero che si tratta, come ha affermato più volte Garrone, di una "metafora della società in cui viviamo", dal momento che la dimensione comunitaria, con le sue dinamiche di prevaricazione e ribellione, condiziona l'intera vicenda. Tuttavia il problema posto e in buona misura risolto da Garrone in Dogman non è più quello dell'alienazione moderna, ovvero dell'essere gettati tra forze imprecisate che determinano la vita e il comportamento dell'individuo, quanto piuttosto quello dell'integrazione coatta, ovvero dell'esigenza, avvertita come insopprimibile dall'individuo, di sentirsi parte di un gruppo, una comunità, un insieme di entità che lo sappia riscattare dal sentimento di solitudine che lo minaccia costantemente. In questo senso Dogman è davvero una metafora della socialità contemporanea, sempre più polarizzata in fazioni, rivalità, tifoserie. Una socialità in cui il sentimento della solitudine equivale al più spaventoso degli spettri: la dissoluzione. Figura gregaria se mai ve n'è stata una, Marcello cerca disperatamente l'aggregazione, non saprebbe fare altro della (e nella) propria miserabile esistenza. Yes-man indefesso e incorreggibile, Marcello ha bisogno del branco come protezione illusoria contro i mali del mondo.
Per raccontare questo dramma dell'integrazione, Dogman non parla dall'alto, non cerca di tirarsi fuori aristocraticamente dalla materia che rappresenta, ma si sporca le mani e gli occhi, adottando il linguaggio che sgorga da questa stessa materia. Fin dai suoi primi lavori, Garrone (e con lui Massimo Gaudioso e Ugo Chiti, tra i suoi collaboratori più stretti in fase di sceneggiatura) sa che per fare presa sulla situazione non è possibile tirarsene fuori, sa che il solo linguaggio in grado di parlare della situazione deve in qualche modo rispecchiare quello della situazione stessa, deve compromettersi. In altri termini, nel cinema di Garrone la bellezza non coincide con lo splendore del vero (secondo la celeberrima formula neorealistica), ma, al limite, col livore del vero. Restando estraneo alla situazione, uno sguardo distaccato da antropologo o da sociologo mancherebbe clamorosamente il bersaglio, non collezionando altro che campioni di materia da utilizzare per prove di laboratorio. Occorre dunque adottare uno sguardo che, pur non conformandosi passivamente alla materia, la oggettivi esteticamente, mantenendone consapevolmente i connotati e facendola manifestare controluce.
Prendiamo in esame la clip "Marcello chiama Simoncino" (in basso): una sequenza di poco più di 1' risolta con due sole inquadrature. La prima mostra il fuorilegge sul suo destriero metallico che scorrazza rumorosamente nel villaggio (ci manca soltanto che spari in aria con le pistole per farci capire che si tratta di una dinamica western). La seconda riprende il povero vessato che esce dalla sua cenciosa bottega a guardare la scorribanda e chiamare l'outlaw hero per cui si è fatto un anno di carcere. Che cosa si ricava da questa seconda inquadratura (di gran lunga quella più consistente della sequenza)? Si nota chiaramente che si tratta di una deliberata rinuncia alla soggettiva: la camera utilizza Marcello come un pivot (il suo corpo è il perno attorno a cui ruota ripetutamente l'asse visivo) senza sposare del tutto il suo sguardo. Ecco, da questa semplice osservazione s'indovina che lo sguardo privilegiato dal film non è banalmente il punto di vista di Marcello, ma una sorta di punto d'incontro dinamico/dialettico tra lo sguardo oggettivo della camera e quello soggettivo del personaggio: una zona grigia in cui la visione non appartiene del tutto né alla camera né al personaggio, ma è la risultante, di volta in volta variabile, tra le due istanze. Detto in termini vetustamente accademici, di soggettiva libera indiretta si tratta.
Osservata da questa angolazione, l'appariscente dolcezza di Marcello lascia trapelare risvolti inquietanti: immancabilmente vincolata a una posizione ancillare, la sua remissività (si noti, nella clip "Videolottery", con quanta obbedienza assecondi i capricci di Simone) ne fa un personaggio la cui volontà è interamente dominata dagli altri e dalle circostanze. Non sfugga che anche il regolamento di conti col suo aguzzino è in realtà dettato da un esplicito proposito di pacificazione: Marcello vorrebbe soltanto che Simone gli chiedesse scusa per fare pace e ripristinare il rapporto di amicizia (o meglio sudditanza), vorrebbe soltanto dargli una lezione per tornare amici come prima. Quando lo colpisce, lo fa per paura, non per ferocia vendicativa, e subito dopo gli cura addirittura la ferita, rassicurandolo premurosamente. È soltanto la reazione di Simone a costringerlo fisicamente ad accoppare il suo padroncino. Non è tutto: una volta liquidato Simone, Marcello, memore dei discorsi ascoltati in precedenza a tavola, cerca subito l'approvazione dei suoi ex amici ("Eri uno di noi", gli rinfacciano emblematicamente quando torna nel quartiere dopo aver coperto l'ennesima bravata di Simone ed essersi fatto un anno di carcere per lui). Non è fortuito che questo tentativo di riguadagnare in extremis la fiducia degli amici che lo hanno ripudiato ("A me qua mi vogliono tutti bene nel quartiere", aveva detto a Simone per dissuaderlo invano dal suo piano criminale) abbia luogo soltanto nella sua testa e non trovi riscontro alcuno nella realtà: ovviamente a giocare a calcetto non c'è nessuno, Marcello sta proiettando sulla realtà il suo subconscio (colgo lo spunto per dire che il finale di Dogman mi ha ricordato con una certa perentorietà il prefinale di uno dei film più sottostimati della storia del cinema: Il salario della paura di William Friedkin). Questa insopprimibile esigenza di approvazione risiede esclusivamente nella sua mente ed è proprio questa incontenibile spinta gregaria a dare senso ai suoi atti, provvedendoli letteralmente di significato. È in questo senso che, malgrado le apparenze, l’autentico "mostro" di Dogman non è la scheggia impazzita Simoncino, ma proprio Marcello, concentrato di passività connivente e delittuosa acquiescenza: un mostro di gregarietà.
Torniamo infine al punto di partenza, ovvero alla "virtuosità discreta" dello stile registico messo a punto da Garrone in Dogman. Anziché perdermi in inutili giri di parole, preferisco ricorrere a un esempio concreto per mettere in evidenza quanto sia cambiata, in questi ultimi quindici anni, la sensibilità cinematografica del regista romano. Nell'immagine sottostante, possiamo vedere un fotogramma prelevato da L'imbalsamatore, film di cui non si potrebbero tessere sufficientemente le lodi. Cerchiamo tuttavia di mantenere un atteggiamento descrittivo e rilevare in quale misura l'impronta visiva sia mutata tra il film del 2002 e Dogman. Il primo incontro tra Valerio, Deborah e il tassidermista Peppino avviene allo zoo: non solo si ravvisa un montaggio molto più serrato rispetto a quello che contraddistingue Dogman, ma è impossibile non notare un uso assolutamente plateale delle soggettive, che in questo caso vengono addirittura scoccate dal marabù con tanto di grandangolo ultradeformante e sonoro distorto (ocularizzazione + auricolarizzazione interne primarie, in termini oscenamente semiotici). Situazioni simili a questa, in cui si vedono animali in gabbia che guardano i personaggi, si danno a più riprese in Dogman e altrettanto spesso si ha la nettissima impressione che le numerose, insistenti inquadrature ravvicinate sui cani che occhieggiano dalle gabbie (si pensi al redde rationem nel retrobottega di Marcello) preparino proprio delle soggettive. Eppure l'aspettativa viene puntualmente frustrata, non una sola inquadratura concede titolarità di sguardo agli animali in gabbia. In Dogman le intemperanze stilistiche, per quanto potenzialmente efficaci e incisive, non hanno più diritto di cittadinanza: l'espressionismo visivo, sorta di cifra estetica sovraimpressa alla materia, ha ceduto il passo a uno sguardo che non si concede più il lusso aristocratico di commentare le vicende rappresentate da una prospettiva estraniata, ma si estrania nell'atto stesso di calarsi nell’orizzonte di movimento dei personaggi, nel loro stesso campo di azione. E accettando tutta l’ambiguità che una compromissione simile comporta, lo comprende senza proporre rimedi portentosi o imporre giudizi dogmatici. Forma e indeterminazione: ecco perché Dogman è un film che, assumendo deliberatamente un linguaggio compromesso, può e sa farsi allegoria crematoria della contemporaneità.