TRAMA
Cresciuto nel New Jersey in un ambiente familiare violento e oppressivo, Douglas, vittima delle angherie paterne e fraterne, è costretto a vivere una vita di prigionia tra le lotte dei cani da combattimento. Ormai adulto, affetto da profonde ferite fisiche e psicologiche che lo costringono su una sedia a rotelle, trova conforto e comprensione solo nei suoi amati cani, che compiono per lui furti nelle residenze dei ricchi.
RECENSIONI
È ormai chiaro che se c’è (e non stiamo dicendo necessariamente che c’è) un problema nel cinema di Luc Besson non è nella tecnica, quanto nel gusto. Sarebbe a dire che se un film come Dogman intervalla scene ermetiche di potentissimo pathos – Doug che vorrebbe lanciare i fiori sul palco della sua amata ma non può perché è in sedia a rotelle, e non arriverebbero – con scenette ben oltre il ridicolo – i cani che catturano i nemici con trappole à la Mamma ho perso l’aereo – non è perché il Nostro non sapeva come fare, è che proprio gli piace così. A questo punto, per chiudere la questione, basterebbe la perentoria saggezza che sempre suggeriscono i detti latini, de gustibus non est disputandum. Ci si consenta però una chiosa: se dei gusti non si discute, allora buona parte della critica (di qualsiasi settore) potrebbe pure andare a farsi benedire. Ma procediamo con ordine.
Dogman è in via definitiva un film buon(in)o. Poteva essere un film ottimo, ma con i se e con i ma non si fa la storia, nemmeno quella del cinema. Il motivo di questo, più sofferto di quanto possiate credere, tiepido giudizio, non sta, appunto, nel gusto. Di quello si prende atto, può piacere e non piacere, se ne può, appunto, discutere, ma sarebbe disonesto e poco utile farne base per un discorso critico.
Partendo dal buono: la storia è plasticamente classica, per non dire archetipale. Tutto ruota attorno alla genesi, allo sviluppo (e pure all’epilogo) di Douglas, protagonista interpretato da un eccezionale Caleb Landry Jones, villain par excellence, nato a partire dal dolore e dalla marginalità, antieroe generato dal fango e costretto a sopravvivere e sopravviversi. Fra Joker (ma anche meglio) e The Rocky Horror Picture Show (ma certamente peggio), Doug si coltiva così fra istrionismo e pseudointellettualismo, trovando rifugio da un lato nei cani, supporto morale ma anche fisico, figli vicari, osannati in quanto specie leale in un mondo di umani corrotti, dall’altro nel travestitismo, che gli consente di estrinsecare la sua vocazione teatrale. Un connubio retto da un pretesto fantastico, giacché Doug è letteralmente l’uomo che sussurra ai cani, una sorta di supereroe disabile, un po’ il Samuel L. Jackson di Unbreakable, un po’ lo Scott Lang di Ant-Man, insomma un personaggio fumettistico erto a emblema di una parabola sull’inclusività, si lasci dire, non sempre a fuoco. Queerness, animalità-animalismo e riflessione sull’abilismo in effetti rappresentano una triade così perfetta da sfociare spesso nell’artefatto o nel kitsch. Non ci riferiamo qui, nuovamente, alle sequenze più smaccatamente risibili, o alle transizioni all’acqua di rose (lui che cerca lavoro con il più stucchevole dei montaggi alternati, cerchiando in rosso annunci nei giornali e portando curricula qua e là per venire accettato solo nel locale dove fanno spettacoli di drag queen, proprio sotto le note lennoxiane di Sweet Dreams), quanto ad alcuni elementi drammaturgici proprio, spiace dirlo, sottotono, mal costruiti, o del tutto fuori luogo. Di seguito quattro, che iniziamo a elencare per paratassi: la psichiatra, il detective, il marxismo, infine Dio.
La psichiatra: quest’ultima, ben incarnata da una capace Jojo T. Gibbs, serve nella misura in cui consente a Douglas di raccontarsi. L’intero film è in effetti un grande flashback, cui abbiamo accesso perché il protagonista narra le sue vicende. Lo fa non sotto costrizione; al contrario, il personaggio è, come anticipavamo, istrionico. Ha bisogno di esprimersi, gli piace essere visto, non c’è un momento in cui si opponga all’interrogatorio della dottoressa. Non capiamo dunque la significatività del pretesto con cui il film pretende di far stabilire una sorta di empatia fra i due personaggi. Il parallelo lei/lui, suggerito sin dall’inizio, non è infatti mai veramente esplorato; sappiamo che entrambi soffrono e hanno sofferto, che lei è (stata) vittima di un uomo abusivo, ma non siamo edotti quanto serve per poter dare a lei una dignità specifica, e così la soluzione appare, in un certo senso, a metà, e non necessaria (salvo forse aprire, sul finale, alla possibilità di un sequel di cui francamente non sentiamo il bisogno). Il detective: come sopra. A un certo punto del film un detective assicurativo rintraccia Doug, scoprendo il modo in cui si procura denaro (utilizzando i suoi cani per far loro compiere rapine in ville). Per un momento si apre così la via del caper movie o più classicamente del noir. Peccato che poi, senza alcuna soluzione di continuità, il detective dall’essere personaggio positivo si rivela invece interessato solo a derubare gli averi di Doug, venendo sbranato dai suoi cani. Un personaggio nato e morto in una sottotrama del tutto evitabile. Ennesima conferma della malvagità umana esperita a tutto tondo dal protagonista, che non si può fidare di nessuno (e però non è vero, perché di personaggi affidabili ne incontra), o fuoriuscita dai binari di una sceneggiatura coerente? Ai posteri l’ardua sentenza. Marx, e Dio: Doug parla con la psichiatra, si confessa, e prova sensatamente a costruire una lettura apologetica dei suoi misfatti. Lo stiamo, giocoforza, a sentire, e stridono però quel paio di riferimenti sparuti alla redistribuzione delle ricchezze (mica sei Robin Hood) così come il reiterato ammiccamento religioso (lascito del fratello perverso che lo seviziò con il padre) che sembra nuovamente attaccato coi cerotti. Il film, cioè, poteva funzionare benissimo senza quelle che sono battute en passant, luoghi comuni non strutturati per davvero.
Ma Besson, l’abbiamo capito da tempo, è uno a cui piace aggiungere più che sottrarre. Così se si schivano con un po’ di benevolenza scivolamenti e derapate varie, e si accolgono nella loro forma più pura certe ingenuità, allora il film scorre via con buona verve. Bisogna indossare gli occhi dell’infanzia, sforzarsi di non meta-leggere tutto quanto, apprezzare per il loro essere puro grado zero espedienti come la bandiera americana che campeggia fuori dalla casa-prigione del piccolo Douglas (è il Te la do io l’America di Besson), godere di questo Dottor Dolittle alle periferie della semiosfera e dei suoi cani che tanto ricordano, in effetti, film per bambini (da Beethoven a Come cani e gatti), al contempo vantando, alla bisogna, l’efferatezza di Cujo. Difficile da inquadrare, fra l’autorialità e il commerciale, fra l’adulto e il fanciullino, Luc Besson continua a essere proprio come il suo protagonista Douglas, ambiguo, a metà, difficile da valutare per davvero. Per antonomasia: un cane sciolto.