Camera con vista, o la parete (in)esistente

 Considerazioni sparse sul cinema di Ozon
Sequenza finale di Gocce d’acqua su pietre roventi: comprensibilmente angosciata alla vista del cadavere di Franz sul tappeto del soggiorno, Vera si avvicina alla finestra della camera e cerca di aprirla, per rendere più respirabile (in tutti i sensi) l’aria. La finestra è bloccata, la donna spinge disperatamente sulla superficie di vetro: la macchina da presa la riprende dall’esterno, oltre la parete. Non c’è forse immagine migliore per (cercare di) evocare il cinema di François Ozon: claustrofobia, angoscia immateriale, fisica ineluttabilità, disturbante simbolismo, bellezza pura e geometrica, cupa e incantata.
Ogni film di Ozon è una trappola per topi (vedi Sitcom): una situazione di partenza normale, inguaribilmente banale, è perturbata da un corpo estraneo che viene spesso considerato “solo un gioco”. Ma il gioco si allarga, la macchina del Fato (avviata per caso, leggerezza, follia) acquista velocità e forza perturbante, finendo per distruggere ogni punto di riferimento, non solo per i personaggi, ma per lo spettatore, che non sa più stabilire i confini (esistenti?) che separano la realtà dalla simulazione. Il corsivo è di rigore: ogni film del regista è (anche) una riflessione sui sovrapposti/sovrapponibili labirinti della rappresentazione, in cui lo straniamento non si sostituisce all’illusione, ma la affianca per rafforzarla. Gli omaggi cinefili (e non solo) di cui sono disseminati i testi filmici non sono vezzi superflui o attestati didattici (della serie: “ho fatto bene i compiti”), ma espediente espressivo scrupolosamente cesellato. Il cinema di Ozon è incantevole (anche) perché dichiara, con sfrontatezza, la propria natura menzognera, arte-fatta, insieme meccanica e incorporea, capace di sottrarsi a qualsiasi definizione definitiva e riduttiva. Le strategie teatrali (posizione frontale della macchina da presa, antinaturalistici giochi di luce, musica di operistico, assoluto rilievo) evidenziano il narcisismo per nulla autoassolutorio di questi film, in cui lo splendore della finzione ribadisce la propria natura serenamente mendace.
Il cinema del giovane regista presenta un’altra caratteristica fondamentale: l’interesse per lo sguardo. I film di Ozon sono incentrati sulla visione, dolorosa, letale e insieme necessaria e vivificatrice: solamente attraverso lo sguardo è possibile dare un senso al mondo, anche se quello che vediamo finisce per distruggere il mondo che credevamo di conoscere. Sitcom e Gocce d’acqua… mettono in scena una presa di (auto)coscienza che corrode immagini stereotipate (della famiglia, dell’amore), forzando i personaggi ad aprire gli occhi, a riconoscersi in una mostruosa immagine riflessa. Amanti criminali mostra il furore (non troppo) celato in ogni sguardo erotico, 8 donne e un mistero (costruito su una minuziosa griglia di primi e primissimi piani) rovescia in una commedia pervasa di acido muriatico il mistero del cadavere scomparso e invisibile (quindi inesistente?) di Sotto la sabbia,Cinqueperdue e Il tempo che resta raccontano – in modi diversi – un percorso di (ri)scoperta esistenziale che si conclude dove era iniziato, mostrando l’inscindibilità, o meglio l’indistinguibilità, di principio e fine. Vita e morte, passione e indifferenza, nulla è impenetrabile per l’occhio che spia ogni oggetto e ferisce, in primo luogo, se stesso. L’occhio della macchina da presa, sanguinante e prostrato, (per) sempre aperto, dà vita a una camera (con vista) allestita con gusto squisito (troppi i momenti degni di essere elencati e ammirati in tutto il loro splendore: limitiamoci, a titolo di esempio, al già citato finale di Gocce d’acqua…). La quarta parete, lo schermo bianco che separa il film da chi guarda, può essere abbattuta soltanto dalla folgorazione estetica. E Ozon, anche grazie all’apporto di tecnici fidati (Yorick Le Saux, direttore della fotografia in dieci opere fra corti e lungometraggi, compreso il nuovo Un lever de rideau), feticci (impareggiabili la Rampling di Sotto la sabbia e la Sagnier di Gocce d’acqua… e 8 donne e un mistero – per tacer di Swimming pool -, ma si difende bene anche Valeria Bruni Tedeschi, antieroina di Cinqueperdue e insospettato angelo ne Il tempo che resta) e produttori fedeli (dai tempi di Action vérité il regista collabora stabilmente con la Fidélité), è in grado di frantumare l’invisibile e plumbea barriera.