Commedia

DISASTRO A HOLLYWOOD

Titolo OriginaleWhat Just Happened?
NazioneU.S.A.
Anno Produzione2008
Genere
Durata104'
Sceneggiatura
Tratto dadal libro di Art Linson “What Just Happened?: Bitter Hollywood Tales From the Front Line”)
Montaggio
Scenografia
Costumi

TRAMA

Alcuni giorni nella vita di un produttore hollywoodiano: c’è grossa crisi.

RECENSIONI

Il solido mestiere di Barry Levinson, regista che ha paventato più di una volta ambizioni autoriali (film dagli assunti promettenti quasi sempre risolti in annacquati esiti), passando da prove quasi interessanti per quanto irrisolte (la mordace commedia Tin men - il suo film migliore che risale, oramai, a più di vent’anni fa -, la dispersiva quasi-autobiografia Avalon, l’elegante, fatuo Bugsy o il pretenzioso pasticcio Toys) a sobrie produzioni tutte star e poco arrosto (Rain man, Sleepers, Sphere), ritenta il gioco sarcastico leggermente autoreferenziale (cfr. Jimmy Hollywood) con questo What just happened che riprende l’oramai logoro tema di Hollywood industria impietosa, fabbrica di sogni e al contempo vittima designata della sua ambizione a far sognare un ipotetico, potenziale, del tutto idealistico pubblico, fantasmatico dittatore che decide delle sorti di un film, prima ancora che questo arrivi nelle sale, con famigerate proiezioni pilota e focus group-capestro, strumenti spuntati che dovrebbero consentire di prevedere l’esito al botteghino dell’opera e che, come ha fatto notare David Mamet (che di questo regista ha sceneggiato l’alquanto sottovalutata satira Wag the dog) trasformano la capacità di divertirsi del pubblico vero nel suo diritto di sedere in giudizio abdicando al suo ruolo di semplice fruitore, con tutte le inevitabili distorsioni che una pratica sì assurda implica.
De Niro è un produttore (lo è di fatto anche del film in oggetto, dettaglio che rivelerebbe anche una discreta messa in abisso ¹ se non fosse che la pellicola è tratta dall’omonimo best seller di Art Linson, produttore hollywoodiano - Gli intoccabili, Fight club tanto per fare due titoli - qui anche in veste di sceneggiatore) che constata il progressivo sminuirsi del suo potere, scontrandosi, la sua benevola capacità imprenditoriale, legata, secondo i dettami della vecchia scuola, ancora alle ragioni dell’arte, con tutte le fisime e le rapacità dell’ambiente. Girato spesso con una camera a mano che sta addosso al protagonista, un De Niro in splendente tono minore, Disastro a Hollywood risulta, a conti fatti, uno stinto ritratto della fauna che popola questo mondo, fatta di agenti preda di malesseri psicosomatici, registi isterici vessati dalla produzione, star capricciose eccetera eccetera: i tre filoni narrativi che convivono nella breve unità temporale rappresentata dal film (la pellicola con Sean Penn da portare a Cannes che va rimontata contro la volontà del suo regista, il progetto che rischia di fallire per le bizze dello strapagato Bruce Willis, la vicenda intima di Ben con la moglie da cui si è dolorosamente separato e che tenta di riconquistare) non hanno, com’è prassi dell’autore, il mordente e l’energia necessari, scorrono come acqua fresca, strappano un sorriso a stento, appiattiti irrimediabilmente dalla scialba scrittura, a nulla valendo gli sforzi del volenteroso e vivace cast.

¹ Sarebbe molto interessante analizzare in blocco i film prodotti dalla sua Tribeca, opere che ci sembrano tutte segnate da un voluto understatement: produzioni di medio profilo, sempre molto ben recitate, scritte più o meno discretamente, irrimediabilmente pallose.

A Che Prezzo Hollywood? Di pellicole al fulmicotone sulla mecca del cinema ne sono state realizzate parecchie (e Levinson c’era già passato con Jimmy Hollywood) ma la particolarità di quest’opera, a parte l’intelligenza, il ritmo, l’eleganza e l’occhio avvelenato del suo regista, sta nell’autore della sceneggiatura Art Linson che, anziché tradurre la propria autobiografia data alle stampe, decide di prendere spunto da essa per comporre una trama di finzione: quindi, per quanto grottesche, le situazioni “da film” che visioniamo sono a loro modo “vere”. Anche perché, mentre Hollywood produce sogni, il suo backstage è già di per sé favolistico (a essere buoni), una realtà che lievita nell’assurdo da sola: Levinson adotta la cifra stilistica della caricatura per concentrarne gli episodi eccentrici, le trame rigogliose e in continuo movimento, le componenti acidule (vedi il finale del film nel film proiettato a Cannes). Da produttore di film di successo e regista (di minor successo), Art Linson sa di cosa parla e il suo bestiario di umanità è spassoso/amaro, mentre Levinson può contare su un gruppo di interpreti eccellenti, in sinergia perfetta, con caratteri da incorniciare, su tutti il boss degli studios di Catherine Keener per quanto elegantemente spietato, poi l’iroso/capriccioso Bruce Willis nel ruolo di se stesso, convinto che “l’integrità artistica” passi per una barba (ed è assurdo che un’intera macchina produttiva dipenda solo da essa), infine l’agente pavido e pieno di vezzi di Turturro. Meno risolto il personaggio protagonista di De Niro: è arduo stabilire per chi si dia tanto da fare, se per sé, l’arte o il proprio matrimonio; se sia vittima del sistema o carnefice di se stesso. Levinson rovescia nella fabbrica di celluloide la satira di Sesso & Potere sul mondo della politica (che, infatti, paragonava a Hollywood) e conferma le proprie doti nella tragicommedia con sentimento, nel pennellare caratteri strambi e nel portare avanti il tema preferito, quello dell’ostinazione del singolo per raggiungere la meta.