TRAMA
25 agosto 1944. Il generale nazista Dietrich von Choltitz è incaricato di distruggere Parigi, il console svedese Raoul Nordling vuole convincerlo a desistere.
RECENSIONI
- Guardate in faccia la realtà.
- Quale, la mia o la sua?
Due visioni del mondo si specchiano nel luogo mentale di una stanza: nel duello tra von Choltitz e Nordling (Arestrup e Dussollier colpo su colpo) l’uno è rigoroso esecutore del regime all’ultimo atto, l’altro negoziatore in cerca di uno spazio di dialogo. Fuori la notte della Storia che prelude a una possibile alba tragica, dentro due uomini che si confrontano/scontrano, innestando una catena di problemi etici di cui sappiamo “solo” la soluzione (Parigi resta in piedi) ma non la complessità: la sospensione morale offerta dallo stato di guerra, le opposte atrocità che rimano a vicenda (la distruzione di Amburgo come quella ipotetica di Parigi), la responsabilità individuale delle azioni dinanzi agli occhi di oggi e domani, le proprie scelte che ricadono sugli altri, l’opportunità di disobbedire a un ordine folle. E sullo sfondo la fine della guerra, con vincitori e vinti, le conseguenze per tutti.
Nordling esercita una maieutica su von Choltitz: egli con il dialogo prova ad 'estrarre' un'elaborazione personale dal rivale, da qui l'esempio biblico di Abramo che uccide il figlio per cieca obbedienza. Il risiko verbale è sincopato, la situazione si rovescia continuamente, la stessa frase si ripete manipolata all'occasione («Quale figlio vorrebbe un padre come me?»). Ma attenzione: l'apparato retorico della contesa, quando sembra avviato su canali tradizionali, riserva una sorpresa. Il meccanismo rivela un gioco di apparenze: le due posizioni sono viziate, von Choltitz/Nordling si battono in un interno-bolla che li isola e occulta i loro veri contorni. Gradualmente, nel farsi del dialogo, i gusci ideologici si erodono per mostrare una realtà diversa che porta alla rivalutazione di entrambi: il gerarca, noto per la fedeltà al regime, stavolta è costretto a eseguire dal decreto che in caso di tradimento condanna i famigliari; il diplomatico, di ostentata neutralità, è in realtà profondamente coinvolto per la moglie ebrea di cui ha favorito la fuga. Le nuove agnizioni, dunque, portano a riconsiderare l'essenza, i motivi e gli obiettivi dei caratteri sul tavolo. Per paradosso, tutti e due sono lontani da ciò che dicono eppure è proprio la parola a guidarli a 'costruire' una soluzione: sbucciando l'ideale si trova il volto umano, infatti, che esce dallo schema 'nazismo contro resistenza' e contiene pulsioni sentimentali, ragioni personali, necessità affettive. L'ideologia si confronta con la carne viva e il pensiero soggettivo e, come sempre, scopre l'inconciliabilità dei due piani, segna una distanza, ne marca l'eterna differenza: l'idea non coincide mai con la vita vera.
Film parlato, esercizio di cinema da camera con rare escursioni all’esterno (le più esplicative), quella di Volker Schlöndorff è un’opera di scrittura che non rinuncia al suggerimento visivo e alla traccia simbolica: Dussollier che appare nel buio, come un fantasma dell’inconscio, e il “prestigio” della lettera duplicata insinuano l’ipotesi di un piano immateriale, una sorta di dialogo tra von Choltitz e la sua coscienza incarnata in Nordling, visita notturna quasi dickensiana dalla parte del bene. Allo stesso modo, il console rivela di aver osservato il generale nel falso specchio che assume valore di presagio sull’intreccio: nel voyeurismo verso il rivale dialettico, egli guarda attraverso la pubblicità dell’ufficiale per vedere lo stato intimo delle cose. Non si esclude - sottotraccia - che mediante il suo vantaggio ottico Nordling, esattamente come conosce la posizione del whisky, abbia anche maturato informazioni sul privato dell’altro, dunque un’arma in più per persuadere il rivale. Nordling ha forse un vantaggio conoscitivo su von Choltitz, insomma, e questo indicherebbe una partita truccata.
La danza delle apparenze è solo parzialmente intaccata dal finale che compone i contrasti. Qui il regista 'tradisce' la retorica stratificata e chiude la partita con una fine univoca, didascalica e quasi celebrativa, che scioglie il problema 'da che parte stare': l'esercizio della parola forma il progressivo emergere della Ragione che blocca l'orrore, quindi siamo dalla parte di entrambi.