Grottesco, Recensione

DILLINGER È MORTO

NazioneItalia
Anno Produzione1968
Genere
Durata95'

TRAMA

Un ingegnere torna a casa, si prepara la cena, se la spassa con la cameriera, spara alla moglie, s’imbarca per Tahiti.

RECENSIONI

Un paradosso di celluloide, vuoto di (convers)azione, denso di corpi, oggetti, manie, illusioni, concreto e inafferrabile: questo, e molto altro (ostico da esprimere a parole), è “Dillinger è morto”. In novanta minuti in cui “non succede nulla” c’è un mondo e il suo risvolto onirico, e Ferreri demolisce entrambi, il medesimo sorriso beffardo sulle labbra. È insopprimibile (visto anche l’anno di produzione) la tentazione di leggere l’opera in chiave antiborghese, ma una tale interpretazione, per quanto non (del tutto) errata, è fortemente riduttiva; è il regista a mettere in guardia contro il pericolo di una visione piatta e appiattente, mostrando, nella sequenza che precede i titoli di testa, un collega del protagonista che sproloquia sulla condizione dell’uomo nell’universo industriale. Occorre coerenza: se l’uomo è prigioniero di una società alienante, che garanzie ci sono che la sua (auto)analisi non sia “ingabbiata” come la sua personalità? A un livello meno sociologico, “Dillinger” è un’opera sulla mente, sul ciclo continuo d’invenzione e distruzione operato dal pensiero, origine e catastrofe (forse inconscia, come suggerisce la pistola, sbucata misteriosamente dal fondo di un armadio) di ogni mondo possibile. Il protagonista si dedica a varie attività di progettazione del reale (maschere antigas, spuntini a scopo più o meno erotico, filmini vacanzieri, delitti) al termine delle quali riconsidera le sue creazioni, le modifica (la pistola ridipinta a pois), le collauda, le fa a pezzi e ricomincia a disegnare, a ri(dis)organizzare i tasselli del mondo. La realtà e il sogno sono una cosa sola, il prodotto di un cervello sovraffollato. Anche la fuga finale (nel segno degli eroiromantici Dillinger e Byron) è illusione: nell’immagine conclusiva, le (già scarse) connotazioni naturalistiche si dissolvono in una macchia di colore, come quelle sui fogli ridotti a brandelli dall’ingegnere prima della “partenza”. Apogeo della costruzione mentale è il cinema, teatro delle ombre cinesi, souvenir dei desideri più che del “reale” (il protagonista-burattinaio dietro il paravento), riscrittura del passato (il nastro doppiamente inciso con la “voce” della moglie) che non può, nonostante tutto, migliorare la vita: le onde del mare lasciano la parete per diventare vere, ma sulla barca diretta all’isola che non c’è (l’isola dei morti?) il protagonista trova gli stessi elementi della “normalità”, la Donna, il Cibo, la Morte. Costruito su un prezioso gioco cromatico a fini espressivi (i colori caldi sono legati al sesso e al pasto, quelli freddi al matrimonio e al lavoro), “Dillinger” fonde immagini e musiche in un insieme ricchissimo ed essenziale, (sovra)interpretabile all’infinito e al tempo stesso indiscutibile nella propria bizzarra beltà (la statua dotata di maschera antigas, lo show televisivo in cui una delle ragazze sembra ammiccare all’ingegnere, il bagno all’alba sono solo tre degli innumerevoli esempi possibili). Piccoli divino, irresistibile Girardot.