Drammatico

DIARIO DI UNO SCANDALO

Titolo OriginaleNotes on a Scandal
NazioneGran Bretagna
Anno Produzione2006
Durata92'
Sceneggiatura
Fotografia
Montaggio
Scenografia
Costumi

TRAMA

Londra: Sheba Hart è la nuova profesoressa di Storia dell’Arte alla scuola di St.George, fa amicizia con l’anziana collega Barbara Covett e instaura una relazione con un suo studente quindicenne…

RECENSIONI

La fine è buon inizio, per capire cosa non va in Notes on a Scandal. L’epilogo giunge dopo un’ellissi che copre un arco temporale imprecisato, vediamo Barbara (Judi Dench) che si avvicina con fare deciso alla sua panchina, sulla quale siede una ragazza che legge il giornale in cui si narrano le disavventure giudiziarie di Sheba (Cate Blanchett). Inizia a parlarle del fattaccio e le si siede accanto. Volendo accettare l’idea di un epilogo, il film poteva benissimo finire qui: anche lo spettatore meno evoluto ha capito che la criptolesbica Dench ha ripreso la sua folle “caccia”. Ma invece no. Barbara e Annabel (Anne-Marie Duff, dal grande cognome simpsoniano) continuano a parlare, Barbara è sempre più “entrante” e Annabel sembra vincere progressivamente il timido imbarazzo iniziale. Il regista (Richard Eyre) continua a regalare primi piani alla Dench, mortificandone un po’ le straordinarie doti espressive (alla grande Judi era bastato un – 1 - primo piano di pochi secondi per farci capire tutto). L’epilogo riassuntivo ha già sforato, perdendo qualunque efficacia drammatica, e ha rovinato il poco di buono che aveva costruito nei secondi iniziali (il reiterarsi delle ossessioni di Barbara, la chiusura visivamente ciclica della pellicola, che si era aperta proprio con un’inquadratura della panchina). E’ già la storia di tutto il film ma non finisce qui, perché le “sorprese autoanalitiche” dell’ultima sequenza continuano. Annabel sta bevendo un cappuccino e non si accorge di avere un po’ di schiumetta sul naso. Controcampo sulla Dench che sta continuando la sua opera di ammaliamento verbale, il suo sguardo è rivolto in basso, non ha ancora “visto”. Buona cosa: lo spettatore ricorda benissimo il primo momento di complicità tra Barbara e Sheba, innescato proprio da un’omologa, galeotta schiumetta (sul labbro superiore della Blanchett), e si attiva il noto meccanismo della suspense (annuncio di un “qualcosa” di imminente, esasperazione della durata che vi conduce). La Dench alza lo sguardo, vede e ripete l’aggraziato, “intimo” gesto di far notare la schiumetta alla spasimata. Fine? Macché. Sarebbe stato un finale didascalico ma riuscito, sensata ripetizione-ricordo di uno dei momenti “sì” del film tutto. Invece c’è una coda ulteriore, una protesi nella quale al nondetto/accennato/intuito si sostituisce la didascalia per i non senzienti: Barbara continua a parlare con Annabel, le chiede se le piace la musica (il non-corteggiamento pazzoide diventa maldestro approccio da discoteca) e la invita a un concerto di Händel, segue l’assenso di Annabel (che specifica anche, interrogata, di non avere mariti o fidanzati), dissolvenza in nero su un’inquadratura identica a quella iniziale con la Dench che dice “allora siamo d’accordo”. Fine. Fino a ora, ciò che la sequenza finale aveva ricapitolato e immortalato era stato Il macrodifetto del film, ossia la tendenza a vanificare, per “indugio” o “ridondanza”, i suoi buoni momenti (performance attoriali o sequenze ben costruite che fossero). Gli ultimi secondi riescono invece a chiarire come tale macrodifetto tenda a fagocitare la sceneggiatura nel suo insieme, nel senso che personaggi e situazioni la cui costruzione sembrava avviarsi su sentieri battuti ma sicuri naufragano nella forzatura “asservita” alle esigenze del racconto. Nella fattispecie, il percorso evolutivo di Annabel, nell’epilogo, ripercorre quello dei personaggi principali del film; dopo una presentazione adeguata (Annabel accetta educatamente, con un filo di perplessità, l’invadenza di Barbara), la sceneggiatura accelera sciaguratamente i tempi (Barbara passa in pochi secondi a un corteggiamento propriamente detto) e il personaggio tiene lo sciagurato passo (l’imbarazzo iniziale si dirada invece di infittirsi, perché così vuole lo script) fino al disastro finale, in cui la situazione precipita: Barbara, in un’altra manciata di secondi, fa il passo più lungo della gamba (chiede ad Annabel se è sentimentalmente impegnata per poi invitarla schiettamente a uscire con lei), passo che il personaggio replica e ribadisce, in barba alla “credibilità” (Annabel, nella sostanza, accetta le immotivate e frettolose avances di Barbara che l’ha già misteriosamente “intrappolata” nelle sue ossessioni). Fine.

Barbara Covett insegna storia in una scuola della periferia londinese. Arcigna, dura, sciatta, ha costruito un muro di ostilità tra sé e gli altri. Un'apparenza plumbea dietro cui si cela un cuore palpitante in cerca di una metà in cui riconoscersi. La trova nella nuova professoressa di storia dell'arte, Sheba Hart. La ragazza è bella, fragile, e ingenua quanto basta per non capire le reali intenzioni della collega. A intorbidire le acque, una relazione illecita tra la giovane Sheba e uno studente minorenne della sua classe, da cui derivano ricatti, vendette e lo scandalo del titolo. Il film di Richard Eyre, dal romanzo "La donna dello scandalo" di Zoë Heller, adotta il punto di vista dell'anziana Barbara, rendendo lo spettatore testimone della sua ossessione amorosa, al limite del patologico, attraverso le pagine di un diario che la donna scrive quotidianamente. Sullo schermo lo stratagemma prende la forma della voce fuori campo della protagonista ed evita ridondanze grazie alla sceneggiatura di Patrick Marber, che imposta la vicenda coordinando con prodigioso equilibrio il sentire dei personaggi e il progredire degli eventi. Il distacco di Eyre nella messa in scena e l'iterazione in crescendo delle note di Philip Glass, pur raggelando le implicazioni emotive, permettono al racconto di maturare come un thriller dei sentimenti in cui non c'è spazio per facili giudizi. La efficace misura delle premesse, però, non trova continuità negli sviluppi. La sceneggiatura, infatti, perde via via plausibilità (perché mai una maldicenza viene accolta come inconfutabile verità? perché il professore, ancorché baggiano, va a chiedere consigli affettivi alla misantropa Barbara?), le scene madri si moltiplicano (tra le altre, l'atteso confronto tra le due donne, troppo a lungo posticipato, che prende i contorni della classica isteria) e i delicati rapporti tra i personaggi finiscono per rasentare il grottesco (l'assillo della stampa, le reazioni all'interno del nucleo familiare frantumato) e cadere nel didascalico (l'anima nera di Sheba che emerge sotto un trucco pesante). Non aiutano, poi, i personaggi di contorno, la cui caratterizzazione sfiora la macchietta (il preside urlante, la madre sganassona del ragazzino "violato", il collega citrullo, la figlia sgodevole, il marito ignaro; in generale tutta la famigliola di Sheba, che passa da una superficie feliciona ad abissi altrettanto privi di profondità). Più centrato il candore ormonale dell'alunno infatuato. Uscendo dai limiti imposti dalla narrazione ai personaggi ed entrando nelle interpretazioni degli attori, nella gara tra primedonne a stravincere è la carismatica Judi Dench, cui bastano impercettibili movimenti e repentini, quanto incisivi e naturali, cambi di espressione per trasmettere tutto il disagio di una donna provata dalla vita e alla disperata ricerca di amore. Cate Blanchett è come sempre luminosa, ma fatica a dare credibilità a un personaggio approssimativo, privo di quel soffio vitale in grado di dare sostanza all'irrazionalità delle sue scelte.