
TRAMA
La sedicenne Marieme abita con la famiglia alla periferia di Parigi. Fuori da scuola incontra le coetanee Lady, Adiatou e Fily, bulle di quartiere che giocano a fare le dure. Dopo l’iniziale diffidenza, la timida Marieme entrerà a fare parte della banda.
RECENSIONI
Curioso come – in contrasto con il collettivistico originale francese (Bande de filles) – il (discutibile) titolo italiano dell’ultimo film di Céline Sciamma punti tutto sull’unicità identitaria della sua protagonista. L’adolescente Marieme, sedici anni, attraversa diverse esistenze possibili, nel contesto urbano ipercementificato della banlieu parigina. In una sorta di fenomenologia dell’adolescenza, la regista di Tomboy costruisce una serie di quadri in successione e, altrettanti ne lascia immaginare. Marieme è l’adolescente timida che gioca nella squadra femminile di football (l’intensa, quasi surreale, scena iniziale) e arrossisce quando incontra Ismaël. La ragazza di strada che stringe un patto d’acciaio con una banda di coetanee. La sorella responsabile che supplisce a una madre spesso assente. La piccola delinquente che accetta la protezione interessata di un mafioso locale. Potrebbe essere – per un istante sembra pensarci – una ragazza perbene, una sposa e, forse, una madre. I suoi poco promettenti risultati scolastici sembrano invece indirizzarla verso qualche rapido corso professionalizzante.
Sciamma non ricompone il quadro, non offre una prospettiva privilegiata o un punto d’arrivo. Marieme è tutte queste cose insieme e al tempo stesso nessuna. Nel suo rifiuto ostinato di qualsiasi etichetta è contenuta, al tempo stesso, la ricerca di un’identità che non sia un destino preconfezionato, e l’incapacità di trovare un ancoraggio stabile. La moltiplicazione identitaria è suggerita anche dal doppio nome della protagonista, che a lungo si porta dietro l’appellativo di Vic (Victoire). La regista francese fotografa la volatilità dell’adolescenza, il senso di un tempo in divenire, in cui mancano gli appigli e le guide, e l’identità personale si costruisce attraverso meccanismi di inclusione ed esclusione. Un’estrema libertà e una totale assenza di sintesi. Nel finale, aperto e sospeso, ogni possibilità è rilanciata, rimanendo ancora una volta in gioco.
Alle molte vite di Marieme corrispondono i suoi repentini, spesso esasperati, cambiamenti di look. Trucco, vestiti e capelli sono sottoposti a una girandola di variazioni, dettate dal contesto di riferimento. Treccine afro e parrucche bionde, felpe da maschiaccio e mini-abiti attillati, mascara e volto acqua e sapone. All’enfasi sulla dimensione estetica fa da sponda un’attenzione costante, suggerita fina dalla scena di apertura, all’incontro e alla sovrapposizione fra corpi diversi – quelli femminili di Marieme e delle sue amiche, quelli di Marieme e di Ismaël nel buio della camera, quello in evoluzione della sorellina. Come Naissance des pieuvres e Tomboy, Diamante Nero è anche un film sulla costruzione dell’identità sessuale e di genere, capace di giocare con gli stereotipi e di ribaltare i luoghi comuni – Marieme che prende il comando nel gioco delle parti con il compagno, si fascia il seno e rifiuta un’inaspettata proposta di matrimonio.
Interpretato quasi esclusivamente da attori di colore, il film aspira anche a essere una sorta di manifesto politico-culturale, che fotografa l’assottigliarsi delle prospettive cui ciascuno può personalmente ambire in un contesto degradato – con Marieme che cerca una via intermedia fra due poli contrapposti, moglie o prostituta. Nel suo passaggio da una porta all’altra, da una casa all’altra, Marieme cerca di mimetizzarsi, quasi di annullarsi, con l’ambiente che di volta in volta abita, fino a un punto di rottura che coincide con la repentina consapevolezza di trovarsi, sempre, nel posto sbagliato. Il peso di una realtà asfittica porta Marieme a ricominciare ogni volta da capo, lasciandosi dietro il deserto. E’ nell’assenza di un centro gravitazionale, di una narrazione compiuta, che sta il senso del film di Sciamma.
Il titolo francese si concentra sulla dimensione temporalmente più rilevante del film. Dopo l’incontro casuale con Lady, Adiatou e Fily, Marieme entra a fare parte di un gruppo organizzato, che ha le proprie regole e i propri riti di iniziazione, che includono insulti, botte da strada, furtarelli. Il momento di massima coesione del gruppo è suggellato da una canzone di Rihanna (Diamonds), intonata in coro dal quartetto. I momenti più interessanti del film sono quelli che fotografano i passaggi fra le diverse fasi, il senso di qualcosa che sta per finire e di qualcos’altro, qualcosa di incerto, che sta per cominciare. Fondamenta sempre fragili e pavimenti sdrucciolevoli.
Una fuga senza fine di cui la banlieu parigina – anonimi blocchi squadrati e grandi spazi vuoti in cui i personaggi sono punti inquadrati in campo lungo – resta l’unico orizzonte possibile, la dimensione ineluttabile alla quale tutte le esistenze di Marieme mettono capo. È, questa, l’impossibilità di uscire, davvero, da se stessi. Il realismo anti-retorico, quasi cronachistico, della messinscena – di cui Sciamma evita alcuni abusati espedienti (vedi camera a mano) – si stempera così nella rappresentazione di una dimensione più universale, in cui si coagulano tutte le paure e le incertezze dell’età più fragile.
