TRAMA
Stati Uniti: Selma sta per diventare cieca a causa di una malattia genetica e si ammazza di lavoro per pagare l’operazione agli occhi del figlio.
RECENSIONI
Il musical come fuga degli "idioti" nel sogno, nel segno di The Hole di Tsai Ming-Liang. Dopo la Watson de Le Onde del Destino e la Jorgensen degli Idioti, von Trier trova un altro corpo femminile da votare (quasi sadicamente) al sacrificio per amore. Tutte e tre le attrici hanno volti angelici, candidi e sognanti che ricordano (altra ossessione dell'autore) quelli dei minorati mentali, esseri sereni e misteriosi (Il Regno). Trier, purificatosi dai formalismi con il "Dogma" (macchina da presa a mano, luci e set naturali), cui deroga solo durante i numeri musicali, trova la giusta misura fra cinefilia/tecnicismo e trasporto verso il sentimento. Le scene di ballo hanno una duplice funzione di "sfogo", sia per Selma/Bjork sia per il suo regista che, in questo modo, omaggia i classici hollywoodiani e il musical sovietico ambientato in fabbrica e, allo stesso tempo, non si/ci distrae con voli pindarici figurativi (vedi Le Onde del Destino) dal cuore (Selma) del suo film. Trier ha imparato ad ascoltare il proprio battito cardiaco per intonare un canto immortale, che nemmeno la terribile "strozzatura" finale ha il potere di interrompere. Il suo percorso estetico ed umano pretendeva che perdesse un poco di se stesso (la superbia, il mettersi in mostra) diventando cieco come la propria eroina, cui apre totalmente in un melodramma estremo (ai limiti dell'artificioso: vedi, soprattutto, la sequenza dell'omicidio/suicidio, fra equivoci ed incastri). Come negli Idioti, la finzione si specchia nell'autobiografia di un consapevole cammino artistico. "Che c'è da vedere?" canta Bjork: l'immaginazione è potere, è "cuore". Quando partono le danze festose, si riprende fiato dal grigiore della vita, esplode la catarsi veicolata dalle ottime composizioni di Bjork, certamente uscita provata da un set dove Trier le ha rubato l'anima, standole addosso con la cinepresa come Dreyer faceva con la Falconetti, pretendendo che il suo personaggio fosse, allo stesso tempo, determinato e fragile, circondato di calore umano e immerso nella solitudine (a causa di un segreto). Con l'introduzione del dramma giudiziario, l'affare, da intimo, diventa pubblico, si perde il contatto con il "sentire" di Selma e molte scene appaiono superflue (in tribunale, nel braccio della morte), ma prendono forma "la passione" ad immagine e somiglianza di Cristo, tradito e rinnegato, e pagine strazianti indimenticabili: la condanna del silenzio in cella, il colloquio strappalacrime con Jeff (l'ottimo Stormare), la danza dei 107 passi, l'agonia dilatata del cappio.
Procura una strana scissione la visione del film di Lars Von Trier. Da una parte c'è il lato razionale, che cerca di associare ad ogni evento una causa scatenante, e dall'altro quello emotivo, che segue un percorso tutto interiore di adesione alle immagini e vive il film come un'esperienza di immedesimazione totale con il mondo della protagonista. Se all'inizio ci si trova spaesati e si fatica un po' ad entrare nei personaggi e nella storia, segue poi una fase quasi magica, in cui la capacità del regista di stravolgere i generi cinematografici, consente una partecipazione totale alla vicenda narrata. Ed entrare nel mondo fantasioso di Selma (una Björk che si annulla nel personaggio interpretato) in cui la vita dovrebbe essere un musical, diverte, stupisce ed intenerisce. Poi, però, a mano a mano che la storia cresce, si arriva a un bivio emotivo in cui il meccanismo rischia di incepparsi. La causa è da ricercarsi principalmente nella sceneggiatura, che vira alla tragedia senza motivare in modo approfondito il perché degli eventi. La sensazione è quella di un regista che vuole incidere il dito nella piaga dei sentimenti dello spettatore, aggiungendo dettagli sempre più dolorosi e laceranti, ma in modo un po' gratutito, senza che la storia raccontata abbia le premesse per renderli plausibili. E nel momento in cui il gioco diventa scoperto, emozionarsi e partecipare diventa molto difficile. Resta la grande capacità di Lars Von Trier di provocare in modo intelligente, personale e fantasioso, applicando, pur con certe libertà, le regole del Dogma a un genere anti-Dogma come il musical, trasformando la Denevue in una credibile operaia (anche se il suo personaggio appare e scompare, soprattutto nella seconda parte, in modo poco motivato) e costruendo un personaggio femminile perfetto per la sensibilità e la fisicità della cantante Björk (sarebbe interessante vederla in ruolo diverso). Quello che però si percepisce, se prevale il punto di vista razionale su quello emotivo, è la volontà di manipolare la buona fede cinematografica dello spettatore. E si esce dalla sala pensando che, forse, i veri sogni di Selma a occhi aperti sono tutt'altro che dogmatici, ma sfavillanti, kitsch, colorati e ritmati, proprio come quelli dei musical americani, e quello che si è visto al cinema è un esercizio di stile interessante, ma tutto sommato, nel suo tentativo di stravolgere la finzione, più finto che potente.