Biografico, Recensione

DALLAS BUYERS CLUB

Titolo OriginaleDallas Buyers Club
NazioneUSA
Anno Produzione2013
Durata117'
Fotografia
Scenografia

TRAMA

1985. A Ron Woodroof, macho texano tutto ormoni e rodeo, viene diagnosticato l’HIV. All’iniziale sconcerto segue la decisione di lottare. Ovviamente, in un modo del tutto speciale.

RECENSIONI

Il film di Jean-Marc Vallée possiede tutte le caratteristiche necessarie a ben figurare nelle più prestigiose vetrine internazionali, dai festival di nome (premiato a San Sebastián) ai riconoscimenti di settore (la vittoria ai Golden Globes della 'strana coppia' McConaughey/Leto, le sei nomination alla prossima notte degli Oscar), alle copertine delle riviste, non solo di cinema: il tema 'importante” (con tutte le virgolette del caso), la vicenda perturbante e lineare, un protagonista caratterizzato da una tremenda vitalità, irresistibile benché(/perché) odioso, una regia che si sforza, con le sue ellissi e i bruschi cambiamenti di registro, di tradurre visivamente la percezione distorta e l'ansia febbrile dei personaggi principali, fotografando al tempo stesso, calibratissima e puntuale, il dramma nel suo sviluppo clinico (i cartelli che ribadiscono il trascorrere del tempo). Forse è proprio questo il problema: non c'è una nota sbagliata in tutto il film, ma l'impressione è quella di un assieme troppo levigato nella sua apparente anarchia per non suonare fasullo e, quel che è peggio, consolatorio. Il sentimentalismo s'insinua strisciante nei dialoghi sboccati quanto melensi, trasforma il personaggio della dottoressa (che pure gode di una splendida entrata 'in maschera', da autentica messaggera di morte) in un prevedibile 'santino', induce a sfumare progressivamente l'eccesso e il grottesco nel suo contrario, una 'medietà' troppo placida, troppo rapidamente cauterizzata, per risultare non dico autentica (sarebbe troppo), ma meno televisiva di quello che finisce (volutamente?) per essere.

Il canadese Jean-Marc Vallée porta a compimento un progetto che lo sceneggiatore Craig Borten aveva abbozzato quando Ron Woodroof era ancora in vita (lo aveva intervistato nel 1992), a basso budget e sponsorizzato da un Matthew McConaughey “Bigger than life”, e non solo perché ha perso chili per interpretare il protagonista. La sua opera rientra in un filone alla moda di biopic su figure storiche recenti, scomode per l’establishment, che hanno combattuto per ampliare i diritti dei cittadini e debellare certe discriminazioni (viene in mente Milk di Gus van Sant). All’inizio si fa apprezzare quando si discosta dalla cronaca (nessuna menzione su figlia e sorella di Woodroof; inventati i personaggi del travestito di Jared Leto e della dottoressa di Jennifer Garner) e si concentra sul paradosso dell’HIV che colpisce lo stereotipo di un texano Doc, cowboy che monta tori animali e giumente umane, omofobico e maschilista: come uno scherzo del destino, in quegli anni ottanta in cui la malattia pareva retaggio solo di omosessuali e drogati, lo getta in un universo che non gli appartiene e per il quale gli amici lo abbandonano. Allo stesso tempo, pur permanendo il dramma della situazione contingente (di ironia Vallée ne inietta poca, ma il suo Woodroof è anche un buontempone), il racconto cavalca lo spirito combattivo del pistolero che non molla e fa di tutto per sopravvivere. Quando subentra il buddy-movie con il personaggio di Jared Leto, si è in zona “commedia amabile”, ma permane il leitmotiv del paradosso. Poi, con il tema delle cure alternative, naturali di contro a quelle “industriali” sponsorizzate dalle case farmaceutiche, si entra solo di lato nel dramma processuale (e di aule nessuna traccia, se non verso la fine) ma, purtroppo, l’impostazione “cronachistica” si mangia l’ultima parte, tutto diventa dovuto e doveroso, ben espresso ma convenzionale. Simbolica l’ultima immagine di Woodroof che cavalca il suo toro, restando in sella alla vita finché può.