Drammatico, Recensione

CUT

Titolo OriginaleCut
NazioneGiappone
Anno Produzione2011
Durata131'
Fotografia
Scenografia
Costumi

TRAMA

Shuji è un giovane regista squattrinato che predica l’importanza del cinema d’autore. Dopo la morte del fratello, ucciso da malavitosi, dovrà ripagare il debito da lui contratto per permettergli di girare un film. Shuji avanza quindi una proposta: farsi pagare ogni pugno sferrato dai malviventi.

RECENSIONI

Naderi si conferma regista apolide, dopo 'l'altra' America dello splendido Vegas: Based on a True Story, e arriva in Giappone come per avvicinarsi fisicamente ai maestri della settima arte (Ozu, Kurosawa, di cui sono mostrate le lapidi). Questa vicinanza, costitutiva di Cut, porta con sé un percorso di astrazione sempre più preciso, ostinato e definitivo: Amir Naderi parla solo di cinema. E' violentemente metaforica la storia di Shuji (un bersagliato Hidetoshi Nishijima), ragazzo che prima si fa banditore, 'urlatore' del cinema d'autore sconfitto dalla logica commerciale (a livello letterale: il protagonista urla in strada); e dopo diventa punching ball, incassatore di pugni, per ripianare i debiti del fratello e - nello straniante finale - addirittura finanziare il progetto del prossimo film. Se suona subito evidente l'obiettivo finale, lo stile del cineasta iraniano intavola una metafora lenta ed avvolgente, come sempre prendendosi il suo tempo, che si declina spesso attraverso l'iterazione di molte sequenze e situazioni (per esempio, lunghi e ripetuti sono i pestaggi ai danni di Shuji); dall'altra parte, la costruzione progressiva è fondamentale per arrivare alla compiutezza della figura retorica, per soffrire di rimando con il protagonista, laddove l'invito alla resistenza contro la 'morte del cinema' raramente ha trovato un'incarnazione così esplicita, diretta e disturbante (per fare film bisogna ferirsi, forse morire). Il passo avanti non è dunque stilistico in Cut, ma sostanziale nella visione di Naderi: oggi per il regista non è più il tempo della metafora sottile, oggi bisogna urlare, è l'ora di alzare le barricate per difendere il cinema d'autore senza timore di dirlo.

L'altro tema naderiano, il denaro e la sua mefitica influenza sulla comunità degli uomini, è ancora presente fisicamente, palpabile: se in Vegas veniva concretato dall'incessante lavorio delle slot machines, qui le banconote passano continuamente di mano in mano, vengono ricevute da Shuji sanguinante e si lordano anch'esse di sangue, in un accostamento che si avvicina all'osmosi; basta l'immagine ripetuta del protagonista, tumefatto e con i soldi in mano, per realizzare la condanna irreversibile impartita dalla moneta nei confronti della società (contare i soldi è il ritornello del film). Opera programmatica, ovviamente, con una tesi di fondo che si realizza, ma condotta con la mano peculiare del regista, autonoma e lecitamente autoreferenziale: vedere tutto il finale, dichiarazione politica che squaderna i 'cento film più belli' della storia del cinema iscrivendoli sullo schermo, in montaggio alternato al dramma di Shuji ridotto a poltiglia in una ripresa insopportabile, quasi 'inguardabile'. Pronto al prossimo film, ai prossimi pugni.