Drammatico, Recensione

CUORI

Titolo OriginaleCoeurs
NazioneFrancia/ Italia
Anno Produzione2006
Durata125'
Sceneggiatura
Tratto dadalla piece
Fotografia
Musiche

TRAMA

Sei persone sole incrociano i loro destini. A Parigi intanto nevica.

RECENSIONI

Alain Resnais di nuovo alle prese con una pièce di Ayckbourn (dopo il dittico Smoking/No smoking) ribadisce la sua attuale propensione ad usare il teatro per creare cinema; così il testo inglese di partenza è una strada che il regista percorre con un occhio eminentemente cinematografico: si guardi ai movimenti di macchina iniziali che inquadrano i soffitti della casa, le plongée che scrutano i movimenti degli attori nella gabbia del set, i tre studiatissimi zoom (soluzione completamente in disuso e qui utilizzata in chiave spiccatamente espressionistica), le dissolvenze tra le scene (la neve che cade, cfr. L’amour à mort) e il modo in cui la mdp scopre i dettagli e cerca i personaggi mettendone a nudo le emozioni attraverso gli avvolgenti primi piani. Dall’altro lato il dato finzionale proprio del teatro (le scenografie evidenti, la recitazione declamata, gli espedienti della messinscena) sono messi davanti all’occhio dello spettatore (chiamato ancora un volta direttamente in causa perché accetti il gioco) a sottolineare che di artificio si tratta (cfr. tutto il Resnais “teatrale”, da Mèlo all’assurdamente inedito in italia Pas sur la bouche): Resnais allora adotta il testo di Ayckbourn, lo riproduce integralmente (l’unica libertà è il cambio di ambientazione, da Londra a Parigi, l’adattamento è di Jean-Michel Ribes), fa suo il modo di manipolare il tempo proprio del grande drammaturgo inglese (edito pochissimo in Italia, l’unica pubblicazione di due commedie - ottimamente tradotte da Masolino D’Amico - è oggi pressoché introvabile) e non cerca in alcun modo di sfuggire al meccanismo rappresentativo tipicamente teatrale che lo governa, ma senza rinunciare al suo magistrale modo di entrare nell’opera (l’istintivo abbandono del Maestro: alla Morante che alla vigilia della lavorazione gli chiede come sarà il film il regista risponde: “Non lo so, so solo che nevicherà sempre”) e a trascinare il film fuori dai meccanismi tradizionali del cinema (tutta la sua filmografia reca in sé questa tendenza).
Ancora figure esaminate come cavie di laboratorio (cfr. Mon oncle d’Amerique), caratteri soggetti alle fluttuanti pulsioni che si agitano nell’intimo, dominati dall’incapacità di essere quello che davvero vogliono: tutti hanno possibilità inespresse e si sforzano per metterle in atto, tutti combattono per un riscatto e per dissipare la frustrazione, soggetti paurosamente soli che cercano un rimedio al desiderio di non esserlo. E ancora una volta il libero arbitrio decide fino a un certo punto del nostro destino (non era anche Smoking/No smoking un supremo teorema sulla labilità del Fato?) poiché si incrocia inevitabilmente con quello di altre persone che sono forse destinate a sparire all’istante dall’orizzonte della nostra esistenza ma nondimeno a segnarlo ineluttabilmente. Resnais, dopo i capolavori del passato, legati a riflessioni sulle grandi tragedie, sembra oggi rivolgere la propria attenzione ai piccoli drammi dell’individuo - alle minime fatalità che sovrintendono al suo vissuto - guardandoli con disincanto, con l’ironia rassegnata della vecchiaia, stemperata dall’affetto profondo che dimostra per i personaggi che mette in scena e mai impaurito dalla possibile deriva melodrammatica, quasi cercandola (cfr. ovviamente Mèlo). La regia distilla il meglio dal meraviglioso cast, tutto da menzionare (le espressioni di Azema – il cui personaggio è l’elemento ambiguo che segna le vite altrui, un po’ diavolo, un po’ santa - alle avance di Dussolier valgono valanghe di premi), la fotografia di Eric Gautier caratterizza ogni ambiente e situazione, la mano del regista risulta felicemente lieve nel disaminare i temi complessi sul piatto (questo film potrebbe quasi suonare come la variante brillante/malinconica al dramma de L’amour à mort). Riguardo al titolo del film l’autore ha affermato di aver stilato un elenco con un centinaio di possibilità e che, messo definitivamente da parte quello originale dell’opera teatrale, Private fears in public places, Coeurs ha prevalso sull’annunciato Petites peurs partagées (Piccole paure condivise) che appariva nei flani e nei programmi ufficiali della mostra veneziana.

Incroci del destino a Parigi nel microcosmo della media borghesia. La derivazione è teatrale, da una pièce di Alan Ayckbourn, ma il risultato, pur nell'eleganza formale, assomiglia più a una sit-com, con un siparietto di neve, tipo sigla, a separare i vari quadri in cui è suddiviso il lungometraggio. A richiamare il piccolo schermo è l'infelice unione della fotografia, opaca e con eccesso di flou di Eric Gautier, con i set palesemente falsi in cui i protagonisti mettono in scena la propria solitudine. Non c'è traccia di verità nei patemi dei personaggi, che paiono sfiorarsi, incontrarsi e interagire più per esigenze narrative che per un reale e dolente sentire. Lo sguardo di Alain Resnais è leggero e benevolo, ma la disperazione arriva ovattata, filtrata da dialoghi più ricercati che davvero comunicativi. La sensazione è di trovarsi davanti a un punto di vista moralista (quante storie per un video porno casalingo), maschilista (poco rassicurante sentire ancora battute tipo "Ti offro la cena io come un vero macho!" pronunciate senza la minima ironia), comunque poco illuminante. Nell'avvicendarsi dei personaggi, la regia si distingue per un'intera sequenza girata dall'alto durante la visita a un appartamento in vendita (lo sguardo onnisciente del regista?) e per i rapidi flash sui dettagli di arredamento di una stanza, fino ad allora mostrata sempre parzialmente e da lontano, durante uno dei dialoghi conclusivi. Luminosa Isabelle Carré, ancora una volta prossima alla nevrosi Laura Morante, insopportabile Lambert Wilson, sovraeccitata Sabine Azéma (la timorata di Dio in realtà gran porcona, uh che originalità, e che risate!) e in parte Pierre Arditi. Semplicemente brutto, invece, l'epilogo didascalico, con tanto di televisione che si spegne mentre compare la parola FINE, pardon, FIN.

I personaggi sono come insetti che lottano per sfuggire alla trappola. Ogni volta che uno di loro si muove, lo spostamento si fa sentire anche altrove sulla tela, su qualcuno che tuttavia può non avere nessun legame con chi si è mosso per primo.
(Alain Resnais)

E' la contaminazione l'impianto teorico di Cuori. Alain Resnais non filma affatto il teatro ma realizza una compenetrazione delicata tra set e palcoscenico; manovrando la piece di Ayckbourn, il regista lancia subito una dichiarazione d'intenti, sceglie soluzioni estetiche provocatorie (la ripresa volante della neve in controtempo) e fissa punti fermi nella rappresentazione (lo scambio, ripreso a metà, di Dussolier e Morante nell'appartamento sfitto), nello scopo di offrire una prospettiva, seppure incorniciata dall'innevato sipario, visivamente impossibile da inquadrare per gli scranni di una platea. Allo stesso tempo, gli attori non recitano ma scandiscono le battute in ambienti vuoti o disadorni - l'immagine ricorrente della casa disammobiliata ne è la vetta iperbolica -, presi a forgiare lentamente uno spiazzante disturbo sensoriale; la tentazione per chi guarda è quella di adagiarsi in comoda posizione teatrale, salvo poi ritrovarsi trafitto da lampi di visuale filmica pura (i protagonisti/insetti osservati dall'alto dal regista/entomologo) a smontare ogni definizione e a dissolvere scientificamente qualsivoglia riferimento. E' il manuale del film che, se funziona nello squisito piano metalinguistico, si afferma peraltro con forza su base sostanziale: all'opera riesce la costruzione rappresentativa di materia nuova, fra teatro e cinema sbilanciata verso quest'ultimo, non priva di un impeto sovraccarico che azzecca continuamente la trovata contaminante (tra le molte, la neve finta sui corpi veri). Non solo l'invenzione formale è tornaconto della riuscita di Cuori, c'è anche un altro livello nel film: il dramma. Resnais coltiva più che mai la propria pariginità - un modo di essere: levità fasulla sopra strato problematico, lacrima dietro risata, dolori ambulanti nei corpi - e la applica a prove schiaccianti del contemporaneo (crisi di coppia, attrazioni in ufficio, complessità famigliari, fondamentalismi) per raccontare l'implacabile tragedia della solitudine - la trappola di cui parla il regista - a cui il cast, divino, si arrende impigliato nella rete (il volo finale della cinepresa, cfr. la medusa di Parole, parole, parole..., non scioglie il dolore dei protagonisti ma lo incide con formidabile crudeltà). Molte scene indimenticabili, per infittire il mistero dello schermo: l'ennesima visita immobiliare che, a seguito della crisi di coppia, è velata da nuova malinconia (il frasario rituale di Dussolier come coltellate nel cuore infranto della Morante, la cinepresa che lascia il soffitto per planare frontalmente sulla donna - teatro contro cinema, ancora - e catturarne lo sguardo tormentato). L'intenso dialogo Arditi/Azema, dove la neve irrompe nell'interno della stanza per un interminabile momento cinematografico, poi torna tutto normale perchè la contaminazione vive solo nell'attimo. Infine l'inizio (pardon); l'ombra della sagoma della Tour Effeil che taglia la nebbia, accenno lieve e quasi irriconoscibile, mentre il film si dibatte tentoni nella neve prima di entrare nella storia. Qui Resnais dona una definizione alle coordinate spazio-temporali dell'intreccio praticamente disarmante; in Cuori lo scheletro è innovativo, il midollo duro, amaro e commovente. Di cosa parliamo quando parliamo di cinema.

Sembrano ancora le incalcolabili possibilità della passione per la messa in scena ad affascinare e, nello stesso tempo, irretire tutto l’interesse di un cineasta come Alain Resnais. La possibilità irrevocabile di disporre le sue figure, le sue maschere, le sue dramatis personae, nello spazio (mentale) della scena, nel respiro singultante dell’inquadratura. È ancora il teatro, inteso come superficie ludica sopra la quale muovere ipotesi di rappresentazione, come luogo in cui si dischiudono i destini mimetici del mondo, a irraggiare di senso la poetica resnaisiana. D’altronde, come diceva Rivette a suo tempo, non è vero che “tutti i film sono sul teatro, non esiste altro soggetto”? L’incessante cadere della neve, rafforzando l’idea di sipario che aveva la tendina del tinello di Muriel, il tempo di un ritorno, apre e chiude gli atti di quella sorta di comédie humaine interpretata da un esagono di personaggi in cerca d’identità, e di compagnia. Resnais lavora di nuovo sulla teatralizzazione dello spazio e su una conseguente riorganizzazione dello stesso perimetrando all’interno di un palcoscenico girevole e cangiante le azioni raggelate dall’immobilismo di uno scenario simbolicamente innevato delle sue marionette metropolitane. La contemporaneità del vivere è descritta – per non dire metaforizzata – nel susseguirsi segregato e claustrofobico di movimenti “a comparto” captati dallo sguardo sempre invadente, quasi entomologico (molto spesso con posizionamento verticale), di una m.d.p. maliziosamente indagatrice (elemento inedito nella cinematografia dell’autore, se si eccettuano le fluidità mesmericamente avvolgenti/stranianti di L’anno scorso a Marienbad). L’impressione è quella di un prolungamento degli esperimenti di Laborit sulle cavie, ma a differenza di Mon oncle d’Amérique, film giocato su un’irresistibile idea di leggerezza e di casualità, Cœurs è attraversato da un’ombra greve di ésprit de géometrie che tende ad irrigidire tragicamente qualsiasi ipotesi di deriva frivola e amusé del racconto. Le esistenze dei personaggi risultano irrimediabilmente imprigionate nel labirinto della loro quotidianità, stanze irriducibilmente non comunicanti, recinti asettici di una rimodernata Marienbad dai quali non è possibile evadere e nei quali, soprattutto, nessuna interazione è praticabile. L’occlusura degli interni (nel cinema di Resnais gli individui sono spesso in cerca di spazio, i personaggi cercano spesso nuovi appartamenti, nuove zone abitabili) con i loro anonimi arredi si rende sinonimo di un impasse comunicativa, o ancor peggio di un insuccesso ontologico ai danni delle persone che li occupano abitudinariamente, e il transito da un locale all’altro non cambia assolutamente le cose. Non esistono, in definitiva, vie di fuga per queste situazioni esistenziali della contemporaneità, per come vengono disegnate dal testo di Ayckbourn, per come rimangono ridefinite in Resnais: battiti impercettibili di un cuore (parigino) incapace di palpitare. Neanche una sonata brahmsiana come petite phrase scardinante di un’atmosfera decrepitamente catacombale come quella di Mélo, né il riattingimento della forma commediale genuinamente archetipica di André Barde e Maurice Yvain di Pas sur la bouche e neppure la divertita esemplarità de lalangue universale della canzonetta di Parole, parole, parole... .