TRAMA
Irene è una giovane imprenditrice di successo, decisa a ristrutturare un palazzo di famiglia per farne un condominio. Durante un sopralluogo…
RECENSIONI
Uno sguardo femminile chiudeva LA FINESTRA DI FRONTE, una donna intenta a scrutare un impossibile orizzonte apre il nuovo film di Ferzan Ozpetek: i lineamenti emergono con ieratica lentezza dall'ombra dei titoli di testa, suggerendo il percorso di (ri)scoperta interiore che sarà compiuto dalla protagonista. Modello perfetto e premiato di un'illustre stirpe d'insaziabili divoratori (parola di zia Maria Clara, amorevole, alcolizzata e reclusa), Irene è forte e determinata, o almeno questo è quello che gli altri (i colleghi - in primis il suo braccio destro, zia Eleonora -, i clienti, gli avversari) e persino lei stessa devono pensare: in realtà la donna è prigioniera dei monumentali e algidi spazi dell'azienda non meno che della propria casa, bianca, isolata e automatizzata come una cella imbottita di lusso. L'ombra della morte e del rimorso (il suicidio di una coppia di conoscenti, più o meno direttamente provocato dalla rapacità finanziaria della megaditta) e il ritorno nella casa che ha ospitato il tramonto della madre (già preda di smanie religiose disordinatamente sincretiche) indurranno Irene a mutare drasticamente vita: si dedicherà ai bisognosi (i 'veri' altri), spogliandosi di tutto e rifiutando ogni interessata interferenza.
Quello che sulla carta minacciava di essere un raccontino edificante si rivela un film coraggioso e in parte riuscito. Ozpetek dimostra sfrontatezza e abilità in pari misura, creando atmosfere sospese fra sogno e incubo, mescolando nella stessa inquadratura piani di realtà diversi, rifiutando di risolvere le ambiguità della narrazione (il finale, che richiama garbatamente Lynch, può suggerire un'ipotesi nebulosamente fantasmagorica: come le enigmatiche frasi scritte dalla madre di Irene, i fotogrammi possono sgusciare da una chiave di lettura all'altra), costruendo inquadrature di geometrico nitore e gotica inventiva che dipingono le tensioni che lacerano Irene (vedi la scena della conferenza, in cui la manager rampante cede inesorabilmente il posto alla dama di carità, per riprendere la sprezzante definizione di Eleonora) e la nuova, inspiegabile forza che la donna sente germogliare in sé (il cuore sacro del titolo, il cuore extra presente in ogni persona e abitualmente eclissato da quello ordinario, emblema dell'egoismo), evitando di ridurre il tutto a pallida agiografia immaginaria.
Ma i maggiori problemi di CUORE SACRO derivano dallo script: se la (dis)umana metamorfosi della protagonista è adeguatamente approfondita (tanto da fare perdonare le cadute di gusto, vedi lo strip in metropolitana, eco francescana delle più ovvie, seppur ben gestita a livello filmico), i personaggi che gravitano intorno a Irene (con la parziale eccezione di Eleonora) sono figure a una dimensione (e mai entusiasmante): preti da fiction (o da spot Armani), clochard sballati (anche loro molto glam e disposti a posare per una Pietà temporalesca), custodi con la scritta 'ottimo surrogato della figura paterna e un po' anche materna' stampata in fronte, vecchie parenti rimbambite ma che la sanno lunga, psichiatre inverosimilmente affabili, troppe macchiette comiche e/o patetiche. Se si aggiungono dialoghi infelici (per usare un eufemismo), idee stiracchiate (la giraffa giocattolo), una piatta e involontariamente ridicola sequenza onirica (capace di azzerare maldestramente la tensione costruita dalla scena precedente, quella che inizia nella piscina e si conclude con Irene abbracciata all'albero, il punto più intenso del film e una delle cose più belle mai girate da Ozpetek) e attori non sempre intonati (nota di demerito alla bamboleggiante Dugay Comencini, già inflittaci da mamma Francesca in MOBBING, mentre il trio composto dalla nipote Bobulova e dalle redivive zie Gastoni e Blanc merita tutti gli elogi possibili), si deve riconoscere che il film, incontestabile paradiso degli occhi, risulta troppo spesso inferno delle orecchie (anche a causa dell'incessante colonna musicale).
Dopo la felice maturità narrativa e stilistica dimostrata con "La finestra di fronte", Ferzan Ozpetek resta invischiato in quello che forse è il suo film più personale, ma anche il meno riuscito. Punta molto in alto il regista italo-turco: raccontare un percorso intimo di crescita, il cambiamento radicale di un punto di vista, la ricerca di una fede spirituale in grado di dare un senso all'esistenza. Ma l'evoluzione interiore della protagonista, da manager senza scrupoli a candidata alla santità, non trova il necessario supporto nella sceneggiatura, ridondante somma di luoghi comuni, a partire dalla contrapposizione facile, e fasulla, tra aridità della ricchezza e misticismo della povertà. Ma tutto suona falso: il rapporto con la misteriosa bambina, l'antitesi tra zia buona e zia cattiva, la laicità di un prete che pare uscito da una fiction televisiva, la prestanza fisica di un simil-barbone con ambizioni cristologiche, la sudditanza di una segretaria che passa con noncuranza dalla grande impresa alla mensa di carità. L'enfasi dei dialoghi sembra voler sempre racchiudere chissà quale significato recondito, quando il più delle volte, dietro all'effetto delle parole affiancate con calcolo, si celano imperdonabili banalità. Particolarmente brutto il monologo della pur volonterosa Michela Cescon, e con il peso dell'indottrinamento la maggior parte delle altre battute. Anche la messa in scena non sempre convince. Ozpetek conosce la grammatica del cinema e sa come coinvolgere il pubblico; si affida, nella luce di Gianfilippo Corticelli, a toni crepuscolari con squarci dorati, ma spesso si dilunga senza spessore e lascia che la musica invadente di Andrea Guerra forzi il sorgere delle emozioni. Così come non riesce mai a rendere credibile la descrizione della "nuova povertà", i figli dell'euro che, pur senza essere barboni, non ce la fanno a far quadrare il bilancio mensile. Ad avere il sopravvento, un po' come nell'affresco un po' naif della comunità omosessuale ne "Le fate ignoranti", è il tratteggio stereotipato: buoni propositi, solidarietà e un pizzico di tapineria a buon mercato. Anche il punto di arrivo lascia insoddisfatti, incerto nel dare sostanza a una fede in bilico tra santino oratoriale e totale laicità, comunque fondata sull'ennesimo senso di colpa. Ogni tanto è bello esagerare, come ci ricorda il personaggio della psicologa, uno dei pochi riusciti e intensi pur nella sua brevità, ma il regista conclude la via crucis della protagonista puntando sulla sensazione - la sequenza "francescana" nella metropolitana - senza che l'ostentato eccesso arrivi a comunicare granché. Tra l'altro, dimenticando per strada molti personaggi e parecchi spunti (ma pare che il montaggio sia stato frutto di numerosi ripensamenti). Gli attori sono la parte migliore della pellicola, dall'intensa Barbora Bobulova al carisma di Lisa Gastoni, anche se dal suo ritorno sulle scene dopo venticinque anni ci si aspettava comunque di più (anche lei vittima di scorciature in sede di montaggio). Efficace Erica Blanc, un po' meno Camille Dugay Comencini, ma forse dipende dalle implicazioni metafisiche del ruolo che interpreta. Al riaccendersi delle luci in sala, tra palpebre calate, qualche punto interrogativo e sguardi perlopiù annoiati, l'atmosfera che si respira è di post-pasticcio d'autore. Lodevoli le intenzioni, un guazzabuglio il risultato.
Di film in film, crescono le pretese autoriali della vedette Ozpetek, per l’occasione ospitato con tutti gli onori anche dalla nota rivista di cinema Famiglia cristiana, evidentemente immemore dell’entusiasmo di colui per il Pride capitolino del 2000. Simmetricamente, regrediscono i risultati: dal caritatevole e trionfante gay village de Le fate ignoranti, alla Shoah come pretesto per amorini e crisette di coscienza (ma senza dimenticare l’ennesima e pedagogica santificazione del gay altruista ed eroico, quasi più insopportabile dell’antica denigrazione) per finire nientemeno che col Tema dei Temi, sì “numinoso e tremendo”, secondo la definizione di Rudolf Otto, da far tremar le vene e i polsi.
I nostri, ché quelli di Ozpetek sono fermissimi sulla macchina da presa e procedono imperterriti alla mèta. Egli non teme di apostrofare apertamente per nome il suo tema, di prenderlo per i capelli, di trascinarlo davanti a noi e di sbattercelo in faccia senza tentennamenti, timori o tremori, ma senza riuscire a creare alcuna atmosfera se non quella di un crescente imbarazzo. E tutto questo nonostante chiami a propri numi tutelari il Rossellini di Europa ’51 e il Pasolini di Teorema, divertendosi ad alludere a quelle opere o a citarle apertamente e alla rinfusa nelle linee narrative di fondo, nelle svolte del racconto, nelle singole sequenze, nel nome della protagonista.
Tuttavia, l’allievo è del tutto privo della spoglia complessità, dell’audacia morale, del rigore espressivo (anche quando facevano un cinema di sperimentazione), della capacità di addensare significati e simboli nell’inquadratura e al contempo di rifiutare le bellurie messe a disposizione da tecnica e linguaggio, della profondità di sguardo sul campo del visibile che caratterizzavano i due maestri.
Il suo cinema, tutto all’opposto, è didascalico nel senso deteriore del termine, cioè privo di acume e di spessore nell’osservazione, tanto a livello di sceneggiatura che sul piano figurativo; però, per quello che valgono, è pieno di ricercatezze sia pure orecchiate un po’ qua e un po’ là (fra gli altri prestiti d’autore, Film blu), ed è munito di colonna sonora di facilissimo effetto emotivo – ma con l’evidente difetto di essere quasi identica a quella del film precedente – per irretire i recalcitranti. In più, abbiamo i soliti morti viventi benevoli nei confronti dei sopravvissuti; la solita ragazzina tutto pepe e tutta arguzia; un pizzico di critica sociale – ma con juicio, perché necessita l’imprimatur delle autorità sanitarie, ecclesiastiche e non ultimo politiche – che si trucca da atto d’accusa contro l’avidità del mondo e suona sincera come un messaggio pubblicitario; un po’ di generico altruismo e di volemose bbene; un finale a tarallucci e vino che grida vendetta al cielo ed all’inferno (ma con rivelazione trascendente a siglare il tutto, perbacco).
Un simile indigesto centone di luoghi comuni e buone intenzioni è chiaramente e totalmente inadeguato alla grandiosità del tema. Ma si segnalano diversi momenti di ridicolo, per allietare la serata. Un fotomodello espressivo quanto un palo della luce e travestito da prete; apparizioni e reincarnazioni di defunti talmente prive di mistero, d’angoscia o d’alcunché, che ci si chiede se l’intento del regista non fosse realmente, anziché involontariamente, parodico; una vecchia gloria – Ozpetek non rinuncia mai, come Limiti, alle vecchie glorie – che con aria torva e corrucciata fa la capitana d’industria spietata, e che al vertice aziendale parla a vanvera di marketing e fusioni societarie; un barbone lindo e profumato manco fosse uscito dal bagno di Poppea; l’amica imbrogliona che pensa bene di togliere il disturbo gettandosi dalla finestra in abito da sera e dopo aver dato le ultime disposizioni alla cameriera filippina; la protagonista che resta spesso – una scena sì e una no, diciamo – a bocca aperta nell’avvertire arcane presenze; l’amica defunta che compare, con espression tra il lusco e il brusco, a impartire lezioni di respirazione sul diaframma.
Ozpetek è impari al compito, come e più di quanto lo fosse nei due film precedenti; ma è abbastanza astuto da mettere nominalmente al fuoco quintali di carne, per attrarre pubblici variegati, cavandosela poi con i ridicoli giochetti di cui abbiamo offerto qualche esempio, e con l’astutissima etica delle banalità spiattellate pari pari: la “vita normale” ne Le fate ignoranti, la “vita migliore” ne La finestra di fronte, la “vita intensamente vissuta” qui.
Sono espedienti di respiro cortissimo, però. La circostanza che finora ad essi abbia arriso ampio successo è certamente un segnale preoccupante, ma non elude la constatazione che si impone con forza: Ozpetek pretenderebbe di mostrare la drammatica realtà del disagio sociale, ma risolve tutto in una serie di macchiette che si avvicendano sullo schermo e in una visione edulcorata e falsa, maledettamente falsa dell’oggetto evocato, così com’era maledettamente falso il morente d’HIV in forma fisica smagliante che compariva ne Le fate ignoranti. Per un regista che vuole coniugare al lirismo il realismo, ci sembra un pessima strada: una strada che insulta la realtà che pretende di onorare.
Infine, dobbiamo al regista la rinnovata tristezza di veder umiliate attrici valenti: qui la Bobulova, la Gastoni, la Blanc, la Cescon, la Vertova; in passato la Buy, la Mezzogiorno, la d’Aloja, ancora la Blanc. Ma nulla può essere tentato contro dialoghi impossibili (la scena con la psichiatra è tristemente esemplare delle finezze di scrittura che il regista ci propina), colpi di scena inutili, passaggi narrativi estratti col forcipe, momenti drammatici artefatti o fastidiosamente estetizzanti o tutt’e due le cose insieme.
Quanto al reparto dei giovani attori, il livello è quello della passerella o del servizio fotografico; ma anche questa, per Ozpetek, non è una novità.