
TRAMA
Adonis, figlio illegittimo del grande Apollo Creed, vuole diventare un boxer. Trasferitosi a Philadephia cerca di convincere l’eterno amico rivale del padre a fargli da allenatore. Sì, proprio lui, Rocky Balboa.
RECENSIONI
You Know, Stallion? It's too bad we gotta get old, huh?
Apollo Creed - Rocky III
Nostalgia canaglia. Vedere Sly tornare nei panni di Rocky Balboa non poteva che regalarci quella dolce e amara emozione del tempo che scorre, inarrestabile. Per di più se il corpo dello Stallone Italiano inizia a mostrarsi fragile nella malattia, in quello che è senza dubbio l'incontro decisivo di un'icona considerata da sempre immortale. Accettando questo inevitabile nuovo corso, Ryan Coogler filma una delicata storia sulla discendenza, dove il rapporto tra padre e figlio diventa necessariamente una riflessione con il passato cinematografico. Di sicuro non si può negare a Creed l'ammirevole rispetto con cui si approccia al modello di riferimento, pur riconoscendogli qualche ingenuità di scrittura che, a dirla francamente, è da sempre un marchio irresistibile di tutta la saga, così naif per la sua tenera retorica, piena di buoni sentimenti e di un innato ottimismo. Il percorso di Adonis ricalca la parabola dello Zio Balboa, ne rivive i luoghi e le dinamiche quasi fossero l'unica via per arrivare a una nuova identità. Non è un caso che il ragazzo, durante la visione dello storico incontro tra Apollo e Rocky, si metta davanti all'immagine del proiettore e si identifichi con il secondo, ponendosi in conflitto con quelle che sono le sue origini. E' impossibile però rifuggirle per molto ed ecco che con la mediazione di un meraviglioso Unc, il cui carisma vintage ti porta a volerlo abbracciare ogni cinque minuti, Adonis indossa il suo cognome e, nel pre-incontro con Ricky Conlan, si riscalda con l'allenatore. Questa volta non vi è un proiettore ma persone reali che ricordano quella sfida rimasta nella storia (cfr Rocky I e Rocky II). Sullo sfondo una lavagna di grandi dimensioni che non può non richiamare uno schermo cinematografico e sancire, nel culmine della crescita del protagonista, la totale identificazione di questo con la mancante figura paterna, la stessa che, in un flashback di mitica memoria, lo resuscita miracolosamente da un più che certo knockout. Coogler sceglie un impianto classico nell'uso continuato del campo controcampo, ma non lesina soluzioni più spavalde e virtuose come il piano sequenza dell'incontro tra Adonis e Leo Sporino che segue per ben due round il combattimento, tra movimenti in steady-cam capaci di immergere lo spettatore in un realismo da diretta sportiva. Non scordiamoci inoltre l'importanza degli intermezzi musicali, con chiara predilezione per l'hip-hop (da 2Pac, The Roots, Badass, etc), il cui sound alza l'adrenalina durante i serrati allenamenti, tra corse per le strade di Philly, ripetute al sacco e galline che, ahimé, non sono più veloci come un tempo. Insomma, dopo quaranta anni l'epopea di Balboa è ancora viva e vegeta, capace di guardare avanti. E' alquanto prevedibile, infatti, che l'avventura tra Adonis e Rocky prosegua con un sequel ed è lì che il giovane autore (classe 1986) dovrà dare ancora più spessore a un eroe, il giovane Creed, al momento succube del titanico personaggio interpretato da Sylvester Stallone. L'obiettivo è senza dubbio quello di costruire un'icona capace non solo di ripercorrere, in una nuova variazione, le gesta del passato, ma di aprire nuove linee narrative che non dipendano quasi esclusivamente dalla mitologia di Rocky. In fin dei conti il nome è Creed e qui sta la sfida, una sfida che in questo primo tassello ha visto dominare incontrastato il carisma di Sly nel suo rimettersi in gioco non solo come allenatore, ma soprattutto come uomo, colpito dal cancro e capace di reagire grazie alla nuova generazione che non può fare a meno di una guida e di un immaginario rassicurante per fondare le sue future gesta. Qui sta il cuore del film, in una seconda parte dove cresce il dramma e si ha il timore che Rocky possa seguire la parabola di Mickey. Certe figure/padri però sono intoccabili e Stallone, toccante nell'esplorare nuove prospettive emotive, ci rassicura con la sua inesauribile voglia di combattere. Sì, quel settantenne riesce a commuoverci. Oscar a mani basse, per favore.

Rocky VII: non pianificato da Sylvester Stallone, per la prima volta ufficialmente assente dal reparto sceneggiatura, bensì dal giovane regista di Prossima Fermata: Fruitvale Station. In apparenza, l’opera è incentrata su di un altro pugile ma accadeva anche in Rocky V e Balboa è il faro del protagonista/film: sono i suoi consigli, almeno al primo incontro, a decidere la vittoria di Creed junior. Non ultimo, Ryan Coogler adotta tutti gli stilemi dell’attore/autore, replicando/citando il rapporto di Rocky con l’allenatore Mick, le tappe della saga, i calzoncini U.S.A. di Apollo Creed, l’incontro finale con vittoria morale, le fanfare negli allenamenti, le pillole di saggezza per essere vincenti nella vita. Michael B. Jordan ha la faccia giusta, le propensioni sensazionalistiche di Coogler (vedi l’opera precedente) rientrano negli accettabili canoni della leggenda cinematografica, compresa la love story infilata a forza ma che funziona. L’incontro finale è rockyano (esaltante) nel midollo ma non è questo il lato vincente del film, bensì la meta-testualità sulla saga: la si rivive, con il senno di poi, attraverso un Rocky Balboa vecchio e malato, come fosse tutto realmente accaduto, ogni episodio, un’intera esistenza di celluloide. Ode dunque a Stallone, che in quest’ultimo squarcio di carriera ha trovato un lato autorale di nostalgica rimembranza, in cui rendersi adorabile di fronte alla macchina da presa anche perché, forse, nel rapporto con un figlio acquisito rivive il proprio privato (poco prima delle riprese, l’ha colpito la tragedia della perdita del figlio Sage).
