Drammatico, Sala

COSIMO E NICOLE

TRAMA

Cosimo e Nicole si conoscono a Genova, durante gli scontri del G8. Si innamorano e vivono una storia di grande passione. Ma succede qualcosa.

RECENSIONI

La chiave della felicità è la disobbedienza in sé
A quello che non c'è

(Afterhours)

Da qualsiasi punto di vista lo si guardi, Cosimo e Nicole è un film a struttura binaria.
Non solo per l’assunto del titolo, che anticipa la storia (infinita?) di un amore, ma perché l’inizio stesso del film è uno spostamento di luogo che è anche un cambio di sguardo: fermo, livido, asettico quello che osserva i due nella cella dell’interrogatorio, come testimoni di se stessi; sporco, un filtro che lo fa sembrare senza filtro, mosso e instabile, lo sguardo che li segue nella loro avventura, facendosi cronaca complice di una vita immersa nel presente.
C’è un gioco semplice ma sapiente di regia nell’uso di un approccio documentaristico che si richiede di solito ai fatti pubblici e sociali, e usa l’intervista come espediente narrativo in prima persona per l’inchiesta; qui però, al contrario, gli scontri del G8 di Genova sono l’occasione per un vissuto privato, eppure capace di rivelare il valore universale di quello che succede fuori. Genova dunque, consumata, ferita eppure luminosa, è lo sfondo: non per questo però cade in secondo piano, perché è fino in fondo ambiente, contesto che scrive il destino di un microcosmo di passione che si vuole assoluto ma fa delle scelte, e tra queste scelte c’è quella di una casa, di un posto dove fermarsi, di un ricordo a cui affezionarsi.
Fino ad allora, un solo progetto: scegliere il minimo compromesso con lo spazio e il tempo per condividere un eterno presente; vivere un godimento che è gioia tremenda da urlare sui tetti, senso di onnipotenza che diventa immediata provocazione per un mondo di cui si può, dunque si vuole, fare a meno, prima di ogni trasgressione o emancipazione.
Cosimo e Nicole che ci parlano dalla cella sono l’epilogo di un incontro che è da subito, lo dice Nicole stessa, un assoluto, un mondo chiuso, un solo corpo capace di bastare a se stesso: un organismo dunque, che nasce e si fonde prima ancora del desiderio che unisce, nell’imprinting di un volto scolpito in una foto per lui; negli occhi sgranati su chi l’ha raccolta da terra, sanguinante, per lei. Sono perfetti insieme, per la complicità e la naturalezza, per una fisicità mai compiaciuta, per un sesso che è puro senso condiviso, prima di tutta la stanca differenza tra superficie e profondità, tra lettera e significato, tra corpo e psiche. La vita di questa pulsione unitaria, che ferisce per gioco e muore di tante dolci morti, è anche la storia della sua separazione, dolorosa come un’amputazione; segue il viaggio per ritrovarsi, strategia di sopravvivenza per tornare a respirare davvero, insieme, e solo più tardi, quasi alla fine, l’incontro di due persone, unità impossibile per definizione.

Eppure, anche in quella ‘bella unità’ il conflitto esiste da subito, da quando l’amore, nato in uno scontro, viene dichiarato da Cosimo per paura di perderlo, e viene omesso da Nicole, che si schermisce per gioco. Quando lei proverà a raccontarlo, contro la miseria delle spiegazioni ordinarie (la psicologa del carcere non trova niente di meglio del desiderio inconscio per dare conto della loro separazione), questa sembrerà un’altra violenza, perché “è difficile” e richiede violenza raccontare qualcosa da cui non si mai preso le distanze per osservarlo, non più di quanto ci si possa staccare gli occhi per guardarsi; si può fare solo sotto interrogatorio, e solo con l’angoscia di dimenticarlo, chiedendosi, alla fine, se si possa dire che è esistito davvero, questo amore nato, vissuto e finito per ordine del caso.
La logica di un immediato che diventa ‘saputo’ è anche il meccanismo della loro prima separazione: l’incisione qui è segnata dall’ambizione di Cosimo di sentirsi ‘riconosciuto’ da Paolo (che lo fa lavorare in nero per montare i palchi e per legarlo a sé in un doppio vincolo lo promuove a fonico), e l’incidente di uno di un operaio africano (Alioune) diventa la crepa attraverso cui il mondo esterno fa irruzione nella coppia come evento, costringendola al confronto. Ma la vera esplosione infine avviene, paradossalmente, per difendere dalla distruzione qualcosa (la lettera d’amore di Alioune) che non appartiene a loro eppure li riguarda, che è testimonianza, traccia dello stesso sentimento di cui loro stessi hanno vissuto, fino a quel momento, senza lasciare traccia, senza volerne lasciare.
Tutta la prima parte del film, fino a questa rottura e oltre, è un gioco di specchi: la potenza incosciente, magnifica e terribile della loro libertà, si rovescia nel potere silenzioso e sordo di una guerra lontana, che condanna all’invisibilità i suoi perseguitati; la fantasticheria di un viaggio esotico, scelta indifferente tra mille altre su cui scommettere, è simmetrica e inversa alla gravità che fa cadere a piombo Alioune dall’impalcatura; l’incoscienza di Nicole, che si muove in una dimensione “adolescente”, in cui i criteri sono indifferenti agli effetti reali, costringe Cosimo a riportare alla realtà (seppure la realtà improbabile di un ultima fuga) un conflitto che, se fosse rimasto interiore, l’avrebbe ucciso.
Questo gioco di rimandi ritaglia una figura poliedrica, che riesce a non diventare macchinosa e artificiosa pur mantenendo sempre un’intenzione di significato. Solo a volte alcuni lati, per chiudere l’insieme, sembrano solo giustapposti o legati da elementi più deboli (il tentato furto del telefono come causa della caduta di Alioune, la sua amnesia prima della partenza).
In questo intreccio la violenza, che è insieme ordine, caso e destino, si insinua gradualmente fino a comparire come l’ineluttabile, di fronte a cui ognuno rivela a se stesso e agli altri il lato peggiore: il comodo compromesso (Paolo, che già prima vive ai limiti del sistema per sfruttare che ne è fuori), la falsa rassegnazione (la compagna di Paolo), la volontà ostinata di costringere la necessità ai propri desideri (Nicole), l’urgenza di nasconderla e annientarla (Cosimo).
Quando però tutto sembra annunciare la tragedia, seguono una serie di morti mancate. Dalla fuga per scortare Alioune in Belgio inizia una commedia, ma solo per finta, perché tutti sappiamo dall’inizio come finirà. La traversata delle dogane è un processo di avvicinamento a tappe e un atto di responsabilità, la messa in scena di un riscatto per riconquistare la libertà e, insieme, riconquistarsi. Tutto per portarci fino a quella telefonata che, negata per scommessa all’inizio, diventa finalmente possibile: l’abbraccio celebra Nicole che ritrova Cosimo, tra i sorrisi di soddisfazione per la vittoria del loro ‘nuovo ordine’ sulla vanità di un potere miope, che è pronto a multare un faro rotto ma si lascia raggirare dalle apparenze presentabili sotto cui si nascondono il delitto.
Sintesi perfetta dunque, vittoria dell’utopia, nuovo orizzonte da immaginare insieme.
Eppure, proprio sfruttando l’ironia del caso (i poliziotti in borghese, perfettamente visibili e per questo nascosti, che ascoltano involontariamente la conversazione telefonica di Alioune), il vecchio ordine si prende la sua rivincita. La stessa voce fuori campo di Nicole ci avverte del paradosso del potere che arresta la loro corsa in controtempo e li punisce per aver cercato di rimediare a una colpa che quello stesso potere, seguendo le sue regole, avrebbe lasciato impunita.

Per quella colpa essi, da stranieri volontari o esiliati, diventano nemici. Il carcere li tiene separati il tempo che basta per affondarli nel passato, privarli del presente in cui hanno sempre vissuto, con l’obbiettivo non dichiarato di farli diventare due estranei, tra loro e per il mondo, e per far diventare questa estraneità motivo di vergogna. Il mondo che prima era terra da sorvolare, un gigante troppo pesante e sciocco per poterli anche solo vedere mentre ballavano sulla sua testa, una volta fuori diventa un luogo inospitale in cui ci si muove a tentoni, scegliendosi un abito e un posto per sopravvivere. Cosimo e Nicole che si incontrano all’uscita dal carcere sono irriconoscibili (grigio e disarmato lui, luminosa e consapevole quanto malinconica lei), così come sembra non riconoscerli il controcampo impersonale che ce li presenta filtrati dalla vetrina di un bar (di nuovo, un rimando: quando Cosimo dopo una lite guardava Nicole oltre una vetrata opaca bagnata di pioggia, in una distanza segnata dalla loro incomprensione). Sono diversi, perché quando lui dopo in macchina cerca uno sguardo complice cerca ancora la Nicole di quella foto per cui una volta la battaglia si era fermata; mentre in lei sembra esserci solo la nostalgia di un assoluto, che il tempo passato in carcere ha sradicato dalla lotta, dalla vita, consegnandolo a un passato ormai saputo.
Vittoria dell’ordine dunque? Forse sì, perché per ballare a piedi nudi, sul ritmo incalzante dei tamburi della festa africana, bisogna spogliarsi e togliersi le scarpe; perché i capelli arruffati ora sono s-pettinati, e non si balla più la libertà ma si balla per liberarsi; perché per liberarsi, per provare ad esserci ancora, c’è bisogno di un rito, di immedesimazione, e per essere più che se stessi bisogna uscire fuori di sé. È così: dopo che ci si è guardati a lungo in terza persona, non si torna ad essere uno e si è troppo pesanti per “camminare dritti sull’acqua”.
O forse, l’ultima morte mancata del film è quella della loro verità, che è stata gioia, piacere da urlare sui tetti, e ora è desiderio di desiderio, un bacio che resta sospeso e chiede per la prima volta un significato. L’inquadratura finale li stringe in un punto interrogativo; mentre tutto intorno scompare, restano i tamburi come colpi di una battaglia, e loro sono meno belli ma ancora vivi, mentre ballano aggrappati l’uno all’altro, e lottano “per quello che non c’è”, contro quello che non c’è, prima del buio.