Documentario

COSE DI QUESTO MONDO

Titolo OriginaleIn This World
NazioneGran Bretagna
Anno Produzione2002
Durata90'
Sceneggiatura
Fotografia

TRAMA

Il lungo viaggio della speranza del piccolo Jamal e del giovane Enayat dalla disperazione afghana alla terra promessa, il ricco e indifferente continente europeo.

RECENSIONI

Ci faremo il callo: Berlino, dopo BLOODY SUNDAY premia un altro film paradocumentaristico (una vicenda praticamente reale, utile paradigma da utilizzare per intuirne milioni di altre possibili). Michael Winterbottom è un regista interessante che sembra evitare scientificamente l'etichetta, autore di film diversissimi, dall'atipico e disturbante road movie BUTTERFLY KISS a JUDE, rigoroso e durissimo adattamento dal romanzo di Hardy, da BENVENUTI A SARAJEVO, l'opera che più delle altre sembra ricondursi a questa, alla sottovalutata commedia urbana WONDERLAND, tanto per citarne solo alcuni di una produzione quantitativamente rispettabile, tenendo conto della sua giovane età. La mistura di registri che azzarda in questo caso (un taglio realistico con immagini in digitale riprese con l'immancabile handycam ma abbinate a accompagnamenti musicali e a un montaggio, in chiave velatamente ma inequivocabilmente narrativa, piuttosto classici) pare però del tutto veilletaria. La fuga del piccolo Jamal e del cugino dall'Afghanistan si sviluppa secondo un copione scontato e, quel che è peggio, senza alcun approfondimento: l'autore pare limitarsi a una pedante illustrazione del lungo percorso del ragazzo, a una superficiale considerazione del disagio che accompagna la sua odissea di clandestino secondo un'esposizione tramica piatta e banale e, anzi, i tentativi di scendere a fondo, di scavare e rendere per sfumature il carattere del protagonista risultano speciosi e evidentemente appiccicaticci. Winterbottom talvolta si concede dei momenti visivamente più ricercati (la lunga sequenza notturna che narra del passaggio dal confine iraniano a quello turco) ma, lungi dal riscattare l'anonimità del film, certe invenzioni ne accentuano la disomogeneità e l'incoerenza. Non basta, anche in questo caso, la nobiltà degli intenti, la necessità di denunciare una situazione che viviamo anche nelle strade delle nostre città (Jamal a Trieste che vende braccialetti è un evidente monito all'indifferenza di noi passanti nei confronti di una realtà spudoratamente meno lontana di quello che ci vogliamo dire) a salvare un'opera irrisolta a livello stilistico e a tratti imbarazzentemente scialba. Prescindendo dall'onestà (o meno) degli obiettivi morali del regista (non mi interessa), una giuria che decide (prassi consolidata un po' dappertutto) di premiare un film non riuscito, ma impegnato su un versante umano, finisce col compiere un atto che mi pare semplicisticamente volto a redimere (un proprio senso di colpa, ovviamente) e che raddoppia l'ipocrisia in gioco. Certe volte bisognerebbe avere la dignità di non coprire la sporcizia della propria coscienza (ché il pulirla è la tacita "giusta causa" di certi allori): ma purtroppo certe rimozioni e certe convenienti coperture sono davvero irrinunciabili cose del nostro mondo.

Con Cose di questo mondo il regista Michael Winterbottom riprende da dove aveva lasciato qualche anno fa: dalla mezza delusione di Benvenuti a Sarajevo, favorito per la palma d’oro a Cannes nel ’97, e rivelatosi invece una sonora battuta d’arresto nella carriera dell’allora giovane e promettente nuovo talento inglese. Dopo una parentesi di fiction durata ben cinque anni, Winterbottom torna al cinema come strumento di ricognizione della realtà. E questa volta riesce in quello che non era riuscito nel ’97: vincere, in questo caso l’Orso d’oro al festival di Berlino. A quanto pare, ora i tempi sono maturi, da una parte per l’affermazione del documentarismo anche nelle principali manifestazioni internazionali, con l’Oscar a Bowling for Columbine di Michael Moore e l’apertura dello scorso anno di Cannes (dopo quarantasei anni) ai documentari (lo stesso Moore, La dernière lettre di Wiseman), dall’altra per riconoscere lo stile “ibrido” del docu-fiction di Winterbottom. La storia di due ragazzi afgani Jamal e Enayatullah, che dal campo profughi di Shamshatoo in Pakistan, rischiano la vita per riuscire a raggiungere la loro terra promessa, un occidente incommensurabilmente ricco rispetto allo scenario da cui i due giovani provengono e attraverso cui, in un’odissea on the road (Iran, Pakistan, Kurdistan, Turchia), fra trafficanti di uomini, clandestinità e umiliazioni, sono costretti a passare. Uno di loro ci rimetterà la pelle, mentre l’altro arriverà fino in Inghilterra, senza però la speranza di poterci rimanere a lungo. Cose di questo mondo non è un documentario in senso stretto, appartiene di più al filone del cinema semidocumentario, quello che in Francia sta vivendo una vera e propria età dell’oro (Nicolas Philibert, i Dardenne), e che Emiliano Morreale1 ha giustamente riconosciuto all’opera soprattutto nel medio oriente (Ticket to Jerusalem di Rashid Masharawi), e che ha fatto risalire, seppur nei distinguo, alla grandissima lezione del cinema iraniano (Kiarostami su tutti). Ed è proprio in questo panorama che va collocato l’ultimo film di Winterbottom, panorama dal quale, tuttavia, Cose di questo mondo si distanzia per diversi motivi. Non è un documentario in senso stretto, perché la vicenda narrata non è accaduta realmente e si basa su di una, seppur esilissima, sceneggiatura (Tony Grisoni), e utilizza “i modi e la sostanza della fiction” come direbbe Fabrizio Tassi2, ovvero un montaggio, una colonna sonora (forse la tara peggiore del film), anche se assume la realtà come mondo di referenza, cioè il mondo del film esiste anche al di fuori del film3, e la messa in scena è ridotta al minimo: gli attori non professionisti, la luce esclusivamente naturale, una troupe “leggera”, e il ricorso alla manovrabilità fisica e alla “trasparenza estetica” del video. Il film di Winterbottom non è certamente un film perfetto. Prima di tutto perché non è un film, come detto, e non raggiunge il risultato estetico che ci si aspetterebbe da un film, ma soprattutto perché non contiene quella riflessione sul cinema che sembra esser diventata la condizione necessaria e sufficiente per rendere il cinema semidocumentario “digeribile” al pubblico, ma soprattutto alla critica occidentale. Ma se non c’è più la metafora, rimane comunque uno sguardo, quello di Winterbottom, che ha il coraggio di raccontare una parte della realtà meno (ri)conosciuta di questo mondo, che accade adesso (non trent’anni fa come nel precedente vincitore della berlinese, Paul Greengrass con Bloody Sunday), e che vuole impegnare le coscienze e gli sguardi di un pubblico occidentale che troppo spesso, questa sì è ipocrisia, vuole ostinarsi a pensare e vedere quello che non ha sotto gli occhi attraverso una mistificazione che ha nel registro grottesco e nei contenuti del kitsch (East is East, Jalla Jalla) la sua essenza più genuinamente globalizzante. Da donare alla vista, perché il fine (l’impegno civile) a volte deve fare a meno dei mezzi (le forme patinate), per farsi documento (se non monumento) dei tempi.